sabato 31 dicembre 2011

Come conobbi Archi / 4 e ultima

di Saverio Bragantini
Visto che sta finendo l'anno, cerco di concludere il racconto avviato qualche tempo fa, riguardante l'ncontro con il non-artista (o anti-, contro-, oppure a-artista), che ora si fa chiamare Archi (il quale, attualmente, sta cercando di svernare sulle coste della Sicilia, in compagnia del suo cane e di una nuova bicicletta, una mountain bike rigida degli anni Ottanta, e che vi saluta). Negli anni Ottanta (secondo me, un'epoca nefasta, ma non è questo il momento per parlarne), Archi non aveva ancora maturato alcuna idea sull'arte, ma parecchie sulla funzione creativa, dopo l'abbuffata di
vernissage e mostre allucinanti a cui prese parte, soprattutto per sfamarsi, negli ultimi anni Sessanta e, soprattutto, nei Settanta, per finire in uno stato di nausea persistente poco dopo, proprio in concomitanza con gli orribili Ottanta, fino a scomparire, almeno dal nostro orizzonte, ma in parte anche dal suo. Anche se scomparire da se stessi non è facile. Allargando la visuale a fatti epocali (scusate, non riesco a frenarmi sugli odiosi anni Ottanta in generale) questi decenni Sessanta-Settanta si configuravano un po' come l'avvicinamento delle imbarcazioni a Capo Horn, con i suoi venti impetuosissimi, nel riferirsi ai paralleli: i quaranta ruggenti, i cinquanta urlanti. Un periodo in cui tememmo, per l'ennesima volta, la fine dell'arte, ma forse la fine era già avvenuta (ad Auschwitz, come disse Adorno), soltanto che noi, forse, troppo entusiastici, non ce n'eravamo accorti. Ma alla fine dei Sessanta ruggenti e dei Settanta urlanti non c'era il nostro Capo Horn, c'erano la Thatcher, Reagan, mode inguardabili, musiche di plastica, pittura e soprattutto mercanti furbi, una letteratura di maniera. Ci saranno state anche cose interessanti, ma l'atmosfera dominante era oppressiva, fintamente ottimistica, perché in realtà autenticamente smemorata. Un oblio costante, che da quel momento in poi divenne una forma mentis, un'abitudine a dimenticare tragedie e conquiste, e che ha finito per plasmare il mondo di oggi, con la sua elettronica miniaturizzata e irreparabile, il sensazionalismo (in cui ogni notizia ne cancella un'altra), con il dominio assoluto della plastica, degli ogm, il disimpegno, il qualunquismo, l'apolitica o antipolitica. (Qui rischio di dilungarmi, ma vorrei che rifletteste su questo, che provaste anche a riavvicinarvi alla storia, alle esperienze, alle pratiche, al contesto dei Sessanta-Settanta.)
La sfida di portare in un teatro la composizione scenica Il suono giallo del pittore russo Vasilij Kandinskij, risalente al 1912, era affiorata durante un simposio ad elevato tasso alcolico a casa mia, dove per tutta la notte continuammo a sfogliare libri, declamare versi e fare le pulci alla critica ufficiale attraverso il mio piccolo ma consistente archivio. Doveva essere il 1975, più o meno. Un fattore decisivo fu una partita di liquori contraffatti provenienti da San Marino. Le bottiglie erano uguali, il sapore più o meno simile all'originale, ma sull'etichetta apparivano nomi che suscitavano la nostra ilarità, mentre però ne bevevamo il contenuto e ne subivamo gli effetti. Il fernet era Fernet Titano, il Gran Marnier era Gran Marino: vado a memoria, non mi ricordo i termini esatti d tutti quei liquori. Qualche libro, tra gli applausi, volò giù dalla finestra. Era roba di critici italiani, in particolare quelli letterari e d'arte che insegnavano all'università: ci stavano proprio sulle palle. Al contrario, Marcuse e Baudelaire venivano letti ossessivamente, come un ritornello, e non suscitavano applausi, ma lunghi o medi silenzi di riflessione. A un certo punto, ci mettemmo a perlustrare l'opera omnia di Vladimir Majakovskij, quella pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1958. Gli otto volumi venivano aperti e si intrecciavano le letture, in una polifonia abbagliante. Questo flusso torrenziale di parole italiane, disposte in frasi spezzettate, che sicuramente in russo avrebbero suonato meglio, veniva profferito a velocità elevatissime, ed era spontaneo, all'epoca, paragonarlo a brani di free jazz, non solo afroamericano, ma anche sovietico, di cui si sapeva poco, ma qualche eco arrivava. Comunque, è ovvio, erano soprattutto i grandi concerti free in Italia a essere il punto di riferimento. La Russia, però, era per noi un riferimento irrinunciabile. Sapevamo dei dischi incisi clandestinamente in Urss sulle lastre radiografiche. Sapevamo da amici che erano stati a Mosca, della letteratura clandestina che circolava manoscritta, ciclostilata. Una letteratura ad alto rischio. Avevamo sentore - noi trotzkisti e situazionisti allo stesso tempo - della dissidenza interna. E riscoprivamo, giorno dopo giorno, quella fase creativa straordinaria che aveva preceduto e, per un certo tempo, aveva fatto seguito alla Rivoluzione Russa.
Il suono giallo, di cui ora non mi metterò a fare la cronistoria, era una sfida emozionante. Era, anzi è un'opera ineseguibile. Il ruolo di Archi era quello definito nel copione 'un uomo'. Esaltati dagli scritti di Antonin Artaud e dal teatro povero, Archi era stato sottoposto a un regime severissimo. Gli avevamo tolto alcolici, sigarette, carne, carboidrati e lo facevamo dormire per terra, vestito di sacco, alla ricerca di un ascetismo teatrale che avrebbe conformato l'artaudiano 'atleta del cuore'. Già stavamo su quella frequenza, almeno dal 1972 o 1973, grosso modo. Questo filone esperienziale non è mai cessato e ancora oggi se ne vedono delle belle, con la body art, gente che si fustiga, il che non mi piace, cioè se ti vuoi fustigare fallo a casa tua, a me che me ne frega, già ci facciamo male abbastanza da soli, invece mi piacciono le performance estreme di Marina Abramovic, le sue riproposte storiche, molto più serie di quello squalo in formalina del cazzo di Damien Hirst, pagato 12 milioni di dollari: e povero squalo, che brutta fine, per far contenti i mercanti, i critici, l'artista e il collezionista (che è il vero mandante, cioè il motore della truffa).
Archi
si allenava ormai tutti i giorni. Aveva lasciato il lavoro di vetrinista nel negozio di giocattoli, Natale era lontano e poteva permetterselo. Si recava tutti i giorni a Villa Ada a correre e a fare ginnastica, a volte con me, che però viaggiavo in auto, una Simca scolorita (all'epoca ero un peccatore, non ero ancora passato alla bici, ma ci pensava l'austerity a limitare l'uso del veicolo, che comunque mi serviva da archivio, spogliatoio, alcova, dormitorio e anche studio mobile).
Seguivo il lato attoriale della preparazione. Barbanti aveva invece molto da fare con le luci e i suoni (in realtà stava impazzendo), che nell'opera kandinskiana sono tutto, molto più importanti degli attori che, quasi potrebbero essere delle sagome di cartone, e andrebbe bene lo stesso.
Nel quadro quarto de Il suono giallo affiora sulla scena un uomo grandissimo vestito tutto di nero, che deve pronunciare solennemente la parola "silenzio"; è l'unica cosa che deve fare. Quella era la parte di Archi. Visto che era molto in forma, e che noi eravamo pochi, la nostra intenzione era di sobbarcarlo di incombenze dietro alle quinte. Avrebbe dovuto fare anche la la parte di un gigante, tirare qualche fune, coadiuvare il tecnico delle luci. Aspettavamo con ansia la sera della "prima" per fare al pubblico un culo così. Luci abbaglianti, suoni trapananti. Pregustavamo la condizione di condizionamento a cui avremmo sottoposto i presenti. Volevamo trasformarli per sempre, non importava come. Un teatro, che non era teatro, ma un rito, che doveva essere un concentrato esistenziale. Nelle nostre intenzioni, lo stile di quel rito era storicamente pre-rivoluzionario, pre-sovietico, uno stile che andava ben oltre il testo che avevamo fra le mani e le tavole del palcoscenico, uno stile che si prolungava, anzi si irradiava in Majakovskij, innanzitutto, ma anche in altri.
L'uomo divenuto celebre per la frase "La vita è performance" non era al corrente del contenuto del testo, né delle caratteristiche del suo ruolo. Per noi la preparazione fisica e psicologica doveva essere fine a se stessa.
Quando seppe che doveva dire solo "silenzio", Archi si incazzò molto. Era cambiato, fisicamente e nei modi. Cercammo di calmarlo, spiegandogli pazientemente che la messinscena era una messinscena, si trattava di un aspetto secondario. Anzi era un pretesto. Ecco, il testo era un pretesto. Anzi era la cosa meno importante del mondo. Forse, alla fine, avremmo potuto anche non rappresentare affatto Il suono giallo, dare buca al pubblico e andarcene a passeggiare sulle rive del Mar Tirreno (sempre con le nostre amate tecniche psicogeografiche, magari consultando mappe della costa adriatica, usandole però al contrario, ovviamente), oppure scandagliare l'intera opera teatrale di Kandinskij che, com'è noto, annovera anche Voci, Nero e bianco, Figura nera e Il sipario viola. Oppure rimescolare le carte, inventare un sipario giallo, una figura viola. Non cambiava nulla. Era l'esperienza che contava. Non importa arrivare su una vetta, importa come ci arrivi. Non importa cosa fai, importa come lo fai.
Tuttavia insorgevano le prime spaccature nel gruppo. Qualcuno cominciò a dire che i soldi dell'incasso sarebbero finiti nelle mani degli eredi di Kandinskij che già facevano la bella vita grazie ai quadri, mo' pure i diritti d'autore per il teatro, no, questo era troppo. E poi tutto questo mazzo che ci stiamo facendo per mettere in scena Il suono giallo, tanto valeva fare un'opera nostra, con tre giganti invece di cinque, o due piccoletti, mettere una campana dove c'era un tamburo, alla fine cosa cambiava, se il testo era un pretesto; si poteva cambiare tutto e salvare la sostanza, con tutto questo lavoro, fare una nuova opera, intitolarla Il suono verde, oppure L'uomo rosso, depositandola alla Siae a nome nostro, magari dando anche qualche soddisfazione in più ad Archi, che molto coscienziosamente si stava preparando come un cosmonauta sovietico per andare in orbita, poveraccio, per dire solo "silenzio", pure lui avrebbe potuto avere qualche gratificazione in più. No, il punto non è questo, non è la gratificazione, conta come si fanno le cose, la forza che conferisci al tuo gesto, non ci si può mettere a contare le parole. E poi, smettiamola, questo mercantilismo mi fa schifo, depositare a nome nostro, ma sai quanto ci guadagni. Stiamo facendo gli stessi errori di coloro che critichiamo fermamente. Scusate, restiamo sul problema che questo testo rappresenta. Sull'incazzatura di Archi. Se dico "silenzio" con tutto il mio carico di fatica, di privazioni, gli conferisco un peso che magari un flusso di parole non ha. Conta l'intensità. Sì, ma questo è vero fino a un certo punto, Se vuoi immergerti in una nuova dimensione, che sia un veicolo di trasformazione, ci vuole tempo, devi ipnotizzare lo spettatore con una durata lunga, assillante, non puoi pensare che basti un clangore orchestrale di dieci secondi a innescare il cambiamento rivoluzionario. La discussione andò avanti per una notte. C'è un discorso storico da portare avanti, il testo o non-testo del Suono giallo risale al 1912, è tutto vago, apparentemente, ma Kandinskij ci ha messo le mani ripetutamente. Questo non può essere accidentale, vorrebbe dire negare la storia. Che facciamo, ci riscriviamo il testo come ci pare? Allora ognuno fa come cazzo gli pare. Questa adesione al testo a me sembra una pratica dogmatica, come l'esegesi biblica. C'è un totalitarismo della parola che non condivido. Allora, sai che facciamo? Una tabula rasa. Archi va sul palco e fa come gli pare: balla, canta, dice qello che gli viene in mente. Oppure torna ad allestire vetrine. Io me ne voglio andare dall'Italia, non ne posso più di questo clima occidentale decadente, di questa borghesia fascista che ingrigisce tutto.
Quella notte ci scolammo tutti i liquori sanmarinesi, un miscuglio infernale. Verso le cinque di mattina, Archi che sembrava dormire, con la testa penzoloni, si alzò lentamente e disse: "Silenzio!". Rimanemmo muti, a bocca aperta, pietrificati. Era quella la parola, era Il suono giallo al 100%. A fatica ripensammo poi a quel momento: un istante lancinante, ma c'era voluta tutta la notte per arrivarci. E solo lì, in quelle determinate condizioni, con quelle persone, quel giorno. Qualcosa di irripetibile. Era tutto inutile. Il suono giallo non si poteva mettere in scena. Meglio un bel
reading su poesie del surrealista Juan Larrea (1895-1980), molto più scorrevole, forse anche più socievole. Pensavo alla raccolta Versión Celeste, ovviamente, nella traduzione italiana di Vittorio Bodini, a cose del tipo:


«
Dalla mia finestra vedo
nella luce teorematica del lampione di fronte
passare i problemi
con le loro formule
Sono formule che passano
nella loro gabbia di rette e curve
con etichette di flaconi di farmacia
sulle fronti
».
In questo modo, avremmo dato ad Archi il suo spazio, senza instupidirci e impoverirci con l'acquisto e la messa in opera delle luci e dei suoni, che ci stavano snervando. Il pubblico, però, andava tartassato, questo era l'unico punto imprescindibile. Per esempio, si potevano disporre dei megafoni sotto le sedie, con una serie di effetti sonori a sorpresa e con luci potentissime che sbucavano dal buio sotto la sagoma magrissima e il volto scavato di Archi, che sembrava Jesus Christ Superstar, ma senza barba.
Il reading su testi di Larrea fu un successo. Solo che il commento prevalente fra il pubblico fu "pensavo peggio", "ormai queste sono cose acquisite" e addirittura "troppo accdemico", accademici a noi, che ci battevamo contro l'accademia quotidianamente, detto poi da uno stronzo leccaculo, storico della letteratura contemporanea fallito (qualcuno sa bene di chi sto parlando), era molto peggio di un vaffanculo. Alla fine alcuni partirono per l'Afghanistan, altri per l'India, con un carico di problemi insoluti da smaltire. La pittura, la poesia, il teatro, la musica come forme di tradimento dell'avanguardia. La demolizione prima ancora della costruzione, la critica prima dell'arte, anzi la critica della pagina bianca. Di Archi, come di molti altri, perdemmo le tracce. Avrei reincontrato Archi solo poco tempo fa, nei fantascientifici Duemila. Di questo parlerò un'altra volta, spero anche con qualche nuova opera da mostrarvi.

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