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sabato 31 dicembre 2011

Come conobbi Archi / 4 e ultima

di Saverio Bragantini
Visto che sta finendo l'anno, cerco di concludere il racconto avviato qualche tempo fa, riguardante l'ncontro con il non-artista (o anti-, contro-, oppure a-artista), che ora si fa chiamare Archi (il quale, attualmente, sta cercando di svernare sulle coste della Sicilia, in compagnia del suo cane e di una nuova bicicletta, una mountain bike rigida degli anni Ottanta, e che vi saluta). Negli anni Ottanta (secondo me, un'epoca nefasta, ma non è questo il momento per parlarne), Archi non aveva ancora maturato alcuna idea sull'arte, ma parecchie sulla funzione creativa, dopo l'abbuffata di
vernissage e mostre allucinanti a cui prese parte, soprattutto per sfamarsi, negli ultimi anni Sessanta e, soprattutto, nei Settanta, per finire in uno stato di nausea persistente poco dopo, proprio in concomitanza con gli orribili Ottanta, fino a scomparire, almeno dal nostro orizzonte, ma in parte anche dal suo. Anche se scomparire da se stessi non è facile. Allargando la visuale a fatti epocali (scusate, non riesco a frenarmi sugli odiosi anni Ottanta in generale) questi decenni Sessanta-Settanta si configuravano un po' come l'avvicinamento delle imbarcazioni a Capo Horn, con i suoi venti impetuosissimi, nel riferirsi ai paralleli: i quaranta ruggenti, i cinquanta urlanti. Un periodo in cui tememmo, per l'ennesima volta, la fine dell'arte, ma forse la fine era già avvenuta (ad Auschwitz, come disse Adorno), soltanto che noi, forse, troppo entusiastici, non ce n'eravamo accorti. Ma alla fine dei Sessanta ruggenti e dei Settanta urlanti non c'era il nostro Capo Horn, c'erano la Thatcher, Reagan, mode inguardabili, musiche di plastica, pittura e soprattutto mercanti furbi, una letteratura di maniera. Ci saranno state anche cose interessanti, ma l'atmosfera dominante era oppressiva, fintamente ottimistica, perché in realtà autenticamente smemorata. Un oblio costante, che da quel momento in poi divenne una forma mentis, un'abitudine a dimenticare tragedie e conquiste, e che ha finito per plasmare il mondo di oggi, con la sua elettronica miniaturizzata e irreparabile, il sensazionalismo (in cui ogni notizia ne cancella un'altra), con il dominio assoluto della plastica, degli ogm, il disimpegno, il qualunquismo, l'apolitica o antipolitica. (Qui rischio di dilungarmi, ma vorrei che rifletteste su questo, che provaste anche a riavvicinarvi alla storia, alle esperienze, alle pratiche, al contesto dei Sessanta-Settanta.)
La sfida di portare in un teatro la composizione scenica Il suono giallo del pittore russo Vasilij Kandinskij, risalente al 1912, era affiorata durante un simposio ad elevato tasso alcolico a casa mia, dove per tutta la notte continuammo a sfogliare libri, declamare versi e fare le pulci alla critica ufficiale attraverso il mio piccolo ma consistente archivio. Doveva essere il 1975, più o meno. Un fattore decisivo fu una partita di liquori contraffatti provenienti da San Marino. Le bottiglie erano uguali, il sapore più o meno simile all'originale, ma sull'etichetta apparivano nomi che suscitavano la nostra ilarità, mentre però ne bevevamo il contenuto e ne subivamo gli effetti. Il fernet era Fernet Titano, il Gran Marnier era Gran Marino: vado a memoria, non mi ricordo i termini esatti d tutti quei liquori. Qualche libro, tra gli applausi, volò giù dalla finestra. Era roba di critici italiani, in particolare quelli letterari e d'arte che insegnavano all'università: ci stavano proprio sulle palle. Al contrario, Marcuse e Baudelaire venivano letti ossessivamente, come un ritornello, e non suscitavano applausi, ma lunghi o medi silenzi di riflessione. A un certo punto, ci mettemmo a perlustrare l'opera omnia di Vladimir Majakovskij, quella pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1958. Gli otto volumi venivano aperti e si intrecciavano le letture, in una polifonia abbagliante. Questo flusso torrenziale di parole italiane, disposte in frasi spezzettate, che sicuramente in russo avrebbero suonato meglio, veniva profferito a velocità elevatissime, ed era spontaneo, all'epoca, paragonarlo a brani di free jazz, non solo afroamericano, ma anche sovietico, di cui si sapeva poco, ma qualche eco arrivava. Comunque, è ovvio, erano soprattutto i grandi concerti free in Italia a essere il punto di riferimento. La Russia, però, era per noi un riferimento irrinunciabile. Sapevamo dei dischi incisi clandestinamente in Urss sulle lastre radiografiche. Sapevamo da amici che erano stati a Mosca, della letteratura clandestina che circolava manoscritta, ciclostilata. Una letteratura ad alto rischio. Avevamo sentore - noi trotzkisti e situazionisti allo stesso tempo - della dissidenza interna. E riscoprivamo, giorno dopo giorno, quella fase creativa straordinaria che aveva preceduto e, per un certo tempo, aveva fatto seguito alla Rivoluzione Russa.
Il suono giallo, di cui ora non mi metterò a fare la cronistoria, era una sfida emozionante. Era, anzi è un'opera ineseguibile. Il ruolo di Archi era quello definito nel copione 'un uomo'. Esaltati dagli scritti di Antonin Artaud e dal teatro povero, Archi era stato sottoposto a un regime severissimo. Gli avevamo tolto alcolici, sigarette, carne, carboidrati e lo facevamo dormire per terra, vestito di sacco, alla ricerca di un ascetismo teatrale che avrebbe conformato l'artaudiano 'atleta del cuore'. Già stavamo su quella frequenza, almeno dal 1972 o 1973, grosso modo. Questo filone esperienziale non è mai cessato e ancora oggi se ne vedono delle belle, con la body art, gente che si fustiga, il che non mi piace, cioè se ti vuoi fustigare fallo a casa tua, a me che me ne frega, già ci facciamo male abbastanza da soli, invece mi piacciono le performance estreme di Marina Abramovic, le sue riproposte storiche, molto più serie di quello squalo in formalina del cazzo di Damien Hirst, pagato 12 milioni di dollari: e povero squalo, che brutta fine, per far contenti i mercanti, i critici, l'artista e il collezionista (che è il vero mandante, cioè il motore della truffa).
Archi
si allenava ormai tutti i giorni. Aveva lasciato il lavoro di vetrinista nel negozio di giocattoli, Natale era lontano e poteva permetterselo. Si recava tutti i giorni a Villa Ada a correre e a fare ginnastica, a volte con me, che però viaggiavo in auto, una Simca scolorita (all'epoca ero un peccatore, non ero ancora passato alla bici, ma ci pensava l'austerity a limitare l'uso del veicolo, che comunque mi serviva da archivio, spogliatoio, alcova, dormitorio e anche studio mobile).
Seguivo il lato attoriale della preparazione. Barbanti aveva invece molto da fare con le luci e i suoni (in realtà stava impazzendo), che nell'opera kandinskiana sono tutto, molto più importanti degli attori che, quasi potrebbero essere delle sagome di cartone, e andrebbe bene lo stesso.
Nel quadro quarto de Il suono giallo affiora sulla scena un uomo grandissimo vestito tutto di nero, che deve pronunciare solennemente la parola "silenzio"; è l'unica cosa che deve fare. Quella era la parte di Archi. Visto che era molto in forma, e che noi eravamo pochi, la nostra intenzione era di sobbarcarlo di incombenze dietro alle quinte. Avrebbe dovuto fare anche la la parte di un gigante, tirare qualche fune, coadiuvare il tecnico delle luci. Aspettavamo con ansia la sera della "prima" per fare al pubblico un culo così. Luci abbaglianti, suoni trapananti. Pregustavamo la condizione di condizionamento a cui avremmo sottoposto i presenti. Volevamo trasformarli per sempre, non importava come. Un teatro, che non era teatro, ma un rito, che doveva essere un concentrato esistenziale. Nelle nostre intenzioni, lo stile di quel rito era storicamente pre-rivoluzionario, pre-sovietico, uno stile che andava ben oltre il testo che avevamo fra le mani e le tavole del palcoscenico, uno stile che si prolungava, anzi si irradiava in Majakovskij, innanzitutto, ma anche in altri.
L'uomo divenuto celebre per la frase "La vita è performance" non era al corrente del contenuto del testo, né delle caratteristiche del suo ruolo. Per noi la preparazione fisica e psicologica doveva essere fine a se stessa.
Quando seppe che doveva dire solo "silenzio", Archi si incazzò molto. Era cambiato, fisicamente e nei modi. Cercammo di calmarlo, spiegandogli pazientemente che la messinscena era una messinscena, si trattava di un aspetto secondario. Anzi era un pretesto. Ecco, il testo era un pretesto. Anzi era la cosa meno importante del mondo. Forse, alla fine, avremmo potuto anche non rappresentare affatto Il suono giallo, dare buca al pubblico e andarcene a passeggiare sulle rive del Mar Tirreno (sempre con le nostre amate tecniche psicogeografiche, magari consultando mappe della costa adriatica, usandole però al contrario, ovviamente), oppure scandagliare l'intera opera teatrale di Kandinskij che, com'è noto, annovera anche Voci, Nero e bianco, Figura nera e Il sipario viola. Oppure rimescolare le carte, inventare un sipario giallo, una figura viola. Non cambiava nulla. Era l'esperienza che contava. Non importa arrivare su una vetta, importa come ci arrivi. Non importa cosa fai, importa come lo fai.
Tuttavia insorgevano le prime spaccature nel gruppo. Qualcuno cominciò a dire che i soldi dell'incasso sarebbero finiti nelle mani degli eredi di Kandinskij che già facevano la bella vita grazie ai quadri, mo' pure i diritti d'autore per il teatro, no, questo era troppo. E poi tutto questo mazzo che ci stiamo facendo per mettere in scena Il suono giallo, tanto valeva fare un'opera nostra, con tre giganti invece di cinque, o due piccoletti, mettere una campana dove c'era un tamburo, alla fine cosa cambiava, se il testo era un pretesto; si poteva cambiare tutto e salvare la sostanza, con tutto questo lavoro, fare una nuova opera, intitolarla Il suono verde, oppure L'uomo rosso, depositandola alla Siae a nome nostro, magari dando anche qualche soddisfazione in più ad Archi, che molto coscienziosamente si stava preparando come un cosmonauta sovietico per andare in orbita, poveraccio, per dire solo "silenzio", pure lui avrebbe potuto avere qualche gratificazione in più. No, il punto non è questo, non è la gratificazione, conta come si fanno le cose, la forza che conferisci al tuo gesto, non ci si può mettere a contare le parole. E poi, smettiamola, questo mercantilismo mi fa schifo, depositare a nome nostro, ma sai quanto ci guadagni. Stiamo facendo gli stessi errori di coloro che critichiamo fermamente. Scusate, restiamo sul problema che questo testo rappresenta. Sull'incazzatura di Archi. Se dico "silenzio" con tutto il mio carico di fatica, di privazioni, gli conferisco un peso che magari un flusso di parole non ha. Conta l'intensità. Sì, ma questo è vero fino a un certo punto, Se vuoi immergerti in una nuova dimensione, che sia un veicolo di trasformazione, ci vuole tempo, devi ipnotizzare lo spettatore con una durata lunga, assillante, non puoi pensare che basti un clangore orchestrale di dieci secondi a innescare il cambiamento rivoluzionario. La discussione andò avanti per una notte. C'è un discorso storico da portare avanti, il testo o non-testo del Suono giallo risale al 1912, è tutto vago, apparentemente, ma Kandinskij ci ha messo le mani ripetutamente. Questo non può essere accidentale, vorrebbe dire negare la storia. Che facciamo, ci riscriviamo il testo come ci pare? Allora ognuno fa come cazzo gli pare. Questa adesione al testo a me sembra una pratica dogmatica, come l'esegesi biblica. C'è un totalitarismo della parola che non condivido. Allora, sai che facciamo? Una tabula rasa. Archi va sul palco e fa come gli pare: balla, canta, dice qello che gli viene in mente. Oppure torna ad allestire vetrine. Io me ne voglio andare dall'Italia, non ne posso più di questo clima occidentale decadente, di questa borghesia fascista che ingrigisce tutto.
Quella notte ci scolammo tutti i liquori sanmarinesi, un miscuglio infernale. Verso le cinque di mattina, Archi che sembrava dormire, con la testa penzoloni, si alzò lentamente e disse: "Silenzio!". Rimanemmo muti, a bocca aperta, pietrificati. Era quella la parola, era Il suono giallo al 100%. A fatica ripensammo poi a quel momento: un istante lancinante, ma c'era voluta tutta la notte per arrivarci. E solo lì, in quelle determinate condizioni, con quelle persone, quel giorno. Qualcosa di irripetibile. Era tutto inutile. Il suono giallo non si poteva mettere in scena. Meglio un bel
reading su poesie del surrealista Juan Larrea (1895-1980), molto più scorrevole, forse anche più socievole. Pensavo alla raccolta Versión Celeste, ovviamente, nella traduzione italiana di Vittorio Bodini, a cose del tipo:


«
Dalla mia finestra vedo
nella luce teorematica del lampione di fronte
passare i problemi
con le loro formule
Sono formule che passano
nella loro gabbia di rette e curve
con etichette di flaconi di farmacia
sulle fronti
».
In questo modo, avremmo dato ad Archi il suo spazio, senza instupidirci e impoverirci con l'acquisto e la messa in opera delle luci e dei suoni, che ci stavano snervando. Il pubblico, però, andava tartassato, questo era l'unico punto imprescindibile. Per esempio, si potevano disporre dei megafoni sotto le sedie, con una serie di effetti sonori a sorpresa e con luci potentissime che sbucavano dal buio sotto la sagoma magrissima e il volto scavato di Archi, che sembrava Jesus Christ Superstar, ma senza barba.
Il reading su testi di Larrea fu un successo. Solo che il commento prevalente fra il pubblico fu "pensavo peggio", "ormai queste sono cose acquisite" e addirittura "troppo accdemico", accademici a noi, che ci battevamo contro l'accademia quotidianamente, detto poi da uno stronzo leccaculo, storico della letteratura contemporanea fallito (qualcuno sa bene di chi sto parlando), era molto peggio di un vaffanculo. Alla fine alcuni partirono per l'Afghanistan, altri per l'India, con un carico di problemi insoluti da smaltire. La pittura, la poesia, il teatro, la musica come forme di tradimento dell'avanguardia. La demolizione prima ancora della costruzione, la critica prima dell'arte, anzi la critica della pagina bianca. Di Archi, come di molti altri, perdemmo le tracce. Avrei reincontrato Archi solo poco tempo fa, nei fantascientifici Duemila. Di questo parlerò un'altra volta, spero anche con qualche nuova opera da mostrarvi.

martedì 25 ottobre 2011

Come conobbi Archi / 3

Si doveva, quindi, provare a mettere in scena Der gelbe Klang (Il suono giallo) di Kandinskij. A me, la sinestesia m'è sempre sembrata una stronzata bella e buona. C'è chi è sicuro che quel Do# è verde e un altro che dice che è marrone. Insomma, ognuno dice la sua. Il rischio è di mettere in secondo piano il fatto che un La è pari a 440 Hz (con multipli e sottomultipli). Ti vibrano nell'orecchio, i 440 Hz. Già basterebbe questo, non c'è bisogno di pensare che sia un carminio con odori di ananas. Comunque, ci eravamo imbarcati nell'impresa e pensai che non mi avrebbe fatto male, in una città provinciale come Roma, immobile e noiosa, con i suoi Moravia, ecc., gettarmi in questa nuova impresa.
La ricerca di Archi dette i suoi frutti. Allestiva vetrine di negozi di giocattoli, con una fantasia forse eccessiva, che poteva mettere in soggezione l'acquirente medio. Lo rintracciammo, grazie alla rete dei critici militanti e dei simpatizzanti, e gli spiegammo il progetto. Avrebbe avuto fama, ma soprattutto cibo e vino per diversi giorni. Certo, qui Kandinskij è scatenato di brutto, non è che ci sia spazio per il bel gesto teatrale. Ma, spiegammo ad Archi, il pubblico sarebbe stato sottoposto a una specie di test di resistenza allo stress, che poteva dare esiti imprevedibili. Coscritto in uno spazio esiguo, il pubblico sarebbe stato messo a dura prova dal processo sinestetico, fino forse a perdere i sensi. Per me, antisinestetico, sarebbe stato già un buon risultato.
Archi si preparò a dovere. Fece anche ginnastica.

saverio.bragantini@gmail.com

sabato 22 ottobre 2011

Come conobbi Archi / 2

Dopo il nostro primo spettacolo, al gruppo di critici-attivisti votati all'abbattimento del sistema, venne in mente un'altra idea. Fu presa nel corso di una serata alcolica (in cui vennero commessi diversi errori sulla scelta degli alcolici). Trascorsero diverse ore su una nota petulante e noiosa, ma anche alla verso la fine la serata si accese e ritornò il buonumore della sommossa artistica. L'idea era di mettere in scena Il suono giallo di Kandinskij, confinando gli spettatori in uno spazio ristretto, per poi gettare loro addosso una valanga di stimolazioni sensoriali, in una sorta di realtà virtiale ante litteram, che tenesse anche conto della lezione di Artaud. Annichilire gli spettatori e rimandarli a casa (forse) cambiati per sempre.
Dov'era finito quell'Archi? Ci servirebbe proprio. Funziona. Cominciammo a chiedere in giro. Pare che frequentasse i vernissage di tutte le mostre che si inauguravano a Roma e dintorni, a prescindere dalla tendenza dell'artista. Lo scopo era alimentarsi e bere a sbafo. Archi si definiva "critico" di diverse testate (perlopiù inventate per non incappare in colleghi indesiderati) e fogli ciclostilati, ma anche e soprattutto un critico verbale. Era un'idea geniale. Il critico verbale era una specie di profeta, che quasi sempre non scriveva affatto, ma destinava le proprie considerazioni soltanto alla parola, sull'esempio di alcuni filosofi e profeti di chiara fama. Andava nei bar e in altri ritrovi di artisti. Una sorta di tazebao fonetico, che non lasciava traccia, se non nella memoria dei presenti. In questo modo, riusciva a incamerare un discreto apporto calorico e a strare al caldo e in compagnia per un po'. L'aspetto, il fisico, i lunghi silenzi rendevano la storia verosimile. Se c'era un solo critico verbale al mondo, questi era non poteva che essere Archi.
La vera svolta nell'esistenza grama di questo oscuro personaggio di contorno avvenne una sera, nel corso dell'inaugurazione di una mostra di Tano Festa. Tanta gente, molti giovani artisti e critici, attrici, mercanti, galleristi. Archi si era già collocato in prossimità del buffet, in modo studiatamente accidentale, fingendo di ascoltare le chiacchiere dei presenti, lui, che non mangiava da due giorni. Qualcuno lo prese di petto, forse troppo, rivolgendogli una domanda diretta su un tema che poteva essere l'identità sociale dell'artista rispetto alla sua opera, o forse il modo di interpretare la genuinità di uno stile o di alcune procedure tecniche in base a ciò che un'artista dice o, ancora meglio, vive. Stranamente, si fece silenzio. Forse la figura di Archi aveva sollevato troppi interrogativi. Chi era e cosa voleva? Non si era mai visto alle lezioni di Argan alla Sapienza, non era un artista, non si sapeva a quali riviste collaborasse. Fu un gesto in qualche modo crudele: il branco dell'arte contemporanea che fruga tra le sue pieghe alla ricerca dell'intruso, espressione autoimmunitaria di un mondo insopportabile (di odi secolari, cinismo, carrierismo) in cui tutti vogliono essere protagonisti, totalmente artificioso nelle sue modalità: il mondo che Archi avrebbe combattutto con tutte le forze.
Il silenzio avvolse i presenti per una decina di secondi, con la sua pesantezza insopportabile. Archi mosse lentamente un sopracciglio, socchiuse la bocca e profferì scandendo bene le parole, ma non troppo ritmicamente: "La vita è performance".
Scoppio un boato. Archi divenne per acclamazione la spina nel fianco di tutto, l'incarnazione del profeta che annuncia morte e distruzione dell'arte e dei suoi meccanismi, per cui è meglio tenerselo buono, vicino, come un barometro da guardare nel momento in cui ti stanno venendo dei dubbi sulla sopravvivenza di un sistema totalmente falso e basato sull'economia, che però ti fa comodo abitare. La vita è performance, l'arte non può esserlo. Non c'è bisogno di fare arte, perché la fai vivendo; certo, vivendo in un certo modo, il modo che consideri artistico, non quello artigianale e neanche quello industriale o burocratico. La vita è performance. Quell'uomo ci serviva: Il suono giallo avrebbe avuto un indiscusso protagonista. Ma non riuscivamo a rintracciarlo.

Saverio Bragantini

martedì 11 ottobre 2011

Come conobbi Archi / 1


Era probabilmente il 1970 e si era da poco consumata l'ennesima scissione tra le fila della critica militante più avanzata. Un piccolo e determinato drappello era intenzionato a mettere in scena a tutti i costi la pièce Ledantju CoMunfaro (1923) di Zdanevic. Eravamo pronti a tuffarci nel dada con tutte le nostre forze, costasse quel che costasse. Dada puro, da far piovere sugli spettatori inermi come una pioggia fittissima che alla fine ti lascia completamente zuppo.
Gli attori erano dei cani. No, forse esagero diciamo che non erano adatti a quel testo, redatto in linguaggio zaum, che richiede spiccate doti performative, anzi direi una particolare vocazione, come una chiamata dall'alto che impone la parola come unico veicolo, ma una parola insensata, apparentemente almeno. Li cacciammo via. Fummo inflessibili, ma credo che loro se ne andarono sollevati.
Girò la voce nel tam tam dell'avanguardia più radicale che c'era una persona adatta, in grado di farsi carico dell'intera pièce da solo, uno spiantato artistoide che vagava per Roma su una Legnano dal tipico colore verde che, però, a forza di colpi di sole, era diventata gialla e s'era anche un po' arruginita. Ci demmo appuntamento di fronte al teatro dove avremmo dovuto mettere in scena (per modo di dire) l'opera. Sulla scena povera nessuno aveva avuto nulla in contrario. Noi eravamo poveri e non mangiavamo un pasto come si deve da diversi giorni.

L'arrivo di Archi che, come oggi, procedeva per lo più spingendo la bici a piedi, ci lasciò costernati. Un fagotto umano, smunto, grigio, che sembrava una foto in bianco e nero scolorita dal sole e dalla pioggia, con i capelli lunghissimi. Si esprimeva a monosillabi.Fummo colti dalla depressione. Gli consegnammo quella partitura di parole intricata, subdola, dove basta un nulla per scoppiare a ridere o andarsene. Quando provammo, restammo colpiti dalla capacità di Archi di emettere tutti quei fonemi, come se li avesse avuti impressi nella mente da sempre. Alla serata assistettero, oltre a noi e al bigliettaio (che però dormì per tutto il tempo), quattro spettatori i quali, nel complesso, accolsero positivamente l'opera. E quattro spettatori, per una cosa del genere, non erano neanche pochi. L'idea di un reading di Zga Yakaby ci balenò per qualche sera, ma poi lasciammo perdere. Archi - che allora mi era noto soltanto con il suo vero nome di battesimo - aveva già fatto perdere le tracce.

Saverio Bragantini

venerdì 30 settembre 2011

Friedrich von Archimboldi, Folding spork (2010)
Oggetto d'uso, certo. Spoon + fork. Una crasi non nuova, per sparambiare una posata nei campeggi o nell'arrampicata estrema. La casistica commerciale è varia (scrutate pure nell'orrido web), ma le soluzioni alla fine sono due: cucchiaio che termina a forchetta oppure da un lato cucchiaio e dall'altra forchetta. Qui Archi s'era probabilmente ingegnato a mettere insieme un utensile - la sua punta d'ossidiana nei valichi raggelanti della Valle del Liri - e avrà sicuramente resistito all'idea di aggiungervi una chiave inglese da 15, molto più allettante di un knife, almeno per il suo velocipede.

Lo spork di Archi si piega, ma pesa una frega, non è certo armamentario superleggero. Nella grotta o nel capanno dove dorme, Archi avrà anche utilizzato l'oggetto in simultanea, tenendo la brodaglia in stanby, mentre azzannava in equilibrio il boccone di verdure lesse, per poi passare alla sostanza liquida, con più calma (si fa per dire). Ma questi sono fatti suoi. Sulla bmx piena di cartone e pacchi vari, con il cane a fianco, vagando per i monti, lo spork avrà trovato ospitalità (almeno lui) in una delle tante tasche della lurida casacca.


Nonostante le insanabili fratture, recentemente il gruppo di lavoro della "nuova critica concretista" ha toccato anche il tema della presunta deriva "utilitarista" di Archimboldi, con posizioni molto distanti, che purtroppo evidenziano una spaccatura insanabile. Una divergenza di opinioni che, del resto, si era già manifestata nel corso della riunione di redazione per il numero zero della rivista Nuova Critica Concretista, terminata con un catastrofico lancio di installazioni e danni agli arredi. Soltanto un tentativo di contatto teorico con i sopravvissuti del glorioso concretismo brasiliano ha temporaneamente pacificato gli animi. Ci accomuna ancora l'avversione per il neoconcretismo brasiliano e l'egemonia dei poeti: e non è poco.

Saverio Bragantini

giovedì 29 settembre 2011

Friedrich von Archimboldi, Fruttiera (2006)
Drill and press. Senza colle, senza chiodi, come nelle mobilia rinascimentali. Riusando le bacchette dei ristoranti cinesi e, in casi di gruzzoli più consistenti, giapponesi. Intrecciandole, come un tessuto. Flessioni strutturali atte ad arginare frutta di una certa dimensione, con un carico di rottura che ne sconsiglia la saturazione, perché la frutta va mangiata, sennò va a male e tenerla in frigo non vale: tanto Archi non lo possiede, quindi il problema è risolto.
Aria di palafitta, di precarietà perenne, la stessa delle vitamine e del Dao che non capiamo mai.
Ora basta.

Saverio Bragantini

venerdì 23 settembre 2011

Friedrich von Archimboldi, Monolito (2004?)

Vi avviso subito. Non è che il corpus primordiale di Friedrich sia infinito. Anzi, stiamo cercando di presentarlo integralmente, anche per poi concentrare meglio l'attenzione sulle opere più recenti, che Archi elabora con il contagocce. Non stiamo cercando di smerciare opere fasulle o retrodatate, come purtroppo abbiamo visto fare spesso nel merdaio dell'arte contemporanea. Archimboldi non crede nell'arte, anzi pensa che non esista. Quindi, per cominciare, è impossibile che si ritenga un artista. Questo manufatto di legno nacque come cassonetto per avvolgibile d'emergenza, essendo crollato per infiltrazioni d'acqua quello vecchio, nel bagno. Il materiale è il legno, secondo solo al metallo nell'immaginario dell'Autore. 
Se andate a guardare da vicino, sul legno utilizzato c'è una scritta. Si tratta del nome del destinatario di un voluminoso scatolone di legno: l'ambasciata della Tanzania a Roma, che gentilmente ha poi gettato vicino al cassonetto il legno, dove l'autore l'ha trovato e prelevato con disccreta destrezza.
No. Non mi cominciate a fare la nenia del terzomondismo, perché non attacca. A parte che in Tanzania il governo è migliore di quello italiano (e non è difficile, ne convengo). Friedrich recupera tutto ciò che lo attira. Si è favoleggiato molto, tra gli addetti ai lavori (sostanzialmente il piccolo drappello dei "nuovi critici concretisti", formatosi a Oriolo Romano qualche tempo fa, gruppo di cui faccio parte, seppure con qualche distinguo), si è favoleggiato molto, dicevo, sul contenuto della scatola inviata dall'Africa all'ambasciata. Un elefante d'avorio? Un copricapo tribale? Un tavolo? Nulla? (ossia una scatolona di legno vuota, mandata in Italia per fare uno scherzo ai paesani forse troppo crapuloni). Non lo so. Certo è che vetture targate cd, in generale, a Roma fanno come cazzo gli pare, tanto le multe non le pagano mai. Chiedete ai pizzardoni. E il ciclista soffre. Anch'io vado in bici, sapete?, ma ne parleremo in un'altra sede. Anzi, approfitto per ringraziare il blog "rotazioni" che, tanto amabilmente, concede spazio alle mie quisquilie critiche.

Dicevamo: cassettone per avvolgibile, cioè quella scatola di legno (adesso in orrenda plastica o d'alluminio), che protegge l'avvolgibile, ma soprattutto chi sta dentro casa (dal freddo). A primavera, nella scatola tanzaniana si annidarono le rondini, che fecero sostanzialmente due cose: fare uova, quindi figli, e cacare. I segni di quel passaggio sono ancora ben evidenti nel retro del Monolito. Un inno alla vita.
Ho cercato di evitare finora il nucleo del problema, ma non posso procrastinare ulteriormente un'osservazione elementare: Friedrich ha visto dei film. In particolare quelli di Kubrick, è inutile sottacerlo o ridimensionare quest'influenza, sebbene ora egli non abbia accesso, volutamente, all'elettricità e si scaldi di notte col suo cane in ripari provvisori. Perché il monolito è quello di 2001: Odissea nello spazio, è innegabile. Un film che, passato il 2001, il 2002, il 2003 e, pervenuti al 2004, si è rivelato cattivo profeta. La Pan-Am, che nella pellicola gestiva il traffico cosmico, era fallita da un pezzo e, invece delle astronavi, gli umani riscoprivano semmai la bicicletta. La benzina, adesso è arrivata a 1.70 euro al litro, tiene ancora tutti al guinzaglio e la gente continua ad andare in auto e a mangiare merda pur di continuare a farlo. Non tentate di mettere dentro queste considerazioni lo slow food, che mi incazzo. Molto meglio il vassoio del film a gravità zero. Basta che non ci siano ogm, questo sì. 
Il monolito è chiaramente quello del film, ma di legno. Un cassettone per avvolgibile disposto sul lato più corto, con le cacate delle rondini ancora dentro, che si innalza verso il cielo o il soffitto, puntando su destinazioni cosmiche immeritate. Una Stonehenge di ciò che non è stato, l'utopia di ciò che vorremmo fosse.


Saverio Bragantini, docente di storia dell'arte sperimentale, contemporanea e futura

martedì 20 settembre 2011

Addentrarsi incautamente nel primissimo Friedrich

No. No. No. Esplorare le prime peripezie plastiche di Friedrich von Archimboldi, tentando di cogliere il preludio a ciò che sarebbe stato, comporterebbe troppi giri di parole e, alla fine, i sotterfugi a cui, purtroppo, ci ha abituato certa critica venduta, esseri abbietti schiavizzati dalle mode e dal denaro. In fondo, degli Scilipoti della coscienza, furieri dell'inferno, servi della gleba che leccano il pavimento nel palazzo del principe. No. L'hortus conclusus delle opere primordiali di Friedrich nasconde una domanda. Di cosa avrebbe avuto bisogno, il Nostro, per portare a termine - e forse fermarsi, non proseguire oltre, come un esordio temporaneo, che esordio non è, perché non ha un seguito - quel suo segmento creativo, tematizzando una ricerca glocale, con le vibrazioni telluriche della materia bruta (e pochi soldi)? Di nulla. Ed è Porta (2002?).
Friedrich von Archimboldi, Porta (2002?)
Non 'Una porta', e neanche, pretenziosamente, con sospetti di paccottiglie di esoterismo iniziatico o, peggio, incipit di un horror di serie b, 'La porta'. No. Questa è Porta. Non nel senso, evidentemente, di 'porta qualcosa da mangiare', ma di uscio, probabilmente un uscio noto, non il primo incontrato. Ma neanche questo è sicuro. E aleggia il rito di passaggio, non iniziatico (che sarebbe troppo palloso), ma tribale. Per essere chiari, del tipo: se voi bianchi vi avvicinate, vi facciamo un culo così.
Insomma, di polvere se n'è depositata su quest'opera, ma nulla a confronto di Rete (2002?), che precede sicuramente quanto visto sopra. E sulla cronologia di questi artefatti si potrebbe dire molto. Come se non lo avessi detto: secondo me sono del 2003.
Friedrich von Archimboldi, Rete (2002?)
Qui viene da sorridere. Ma è una sensazione fugace, sostituita da una più stabile. La rete è uno scherzo, perché qua non c'è nessuna cazzo di rete, anzi è una trama aperta, inadatta alla cattura dei pesci e delle farfalle, e anche alle connessioni fasciste del web. Mica starete leggendo questo saggio su Internet, vero? Questa qui è la rete del pensiero aperto, dialettico, che ingloba, cerca il consenso, fraternizza. E respira.
Ciò che ho detto finora è come se non lo avessi detto. Cancellate tutto, per favore. Una massa di stronzate. Perché arriviamo al lavoro primordiale. E la storia dei materiali dice tutto. Parliamo di Totem (2002?). Il big bang di Friedrich, l'om, l'ur, il la di quel che verrà.
Friedrich von Archimboldi, Totem (2002?)
I genitori di Friedrich, che non erano indigenti, non gli comprarono mai il meccano a Natale, perché costava troppo. Possibile che quel cazzo di vecchietto che guidava le renne non avesse da qualche parte un meccano per il piccolo Friedrich? Anche una rimanenza di magazzino. No. No. E no. Il risentimento covò negli anni. Ma dette i suoi frutti. Una sera, prossimi alle sante feste natalizie, già adulto, anzi per i canoni medievali già avviato alla rottamazione, Friedrich scorse, vicino a un cassonetto del Comune di Roma, una scatola misteriosa. La passione per l'immondizia aveva già orientato il Nostro verso una particolare sensibilità (poco condivisa da ampi settori di questa sporca società). Nell'immondizia si nascondono tante cose interessanti. La scatola si può prendere e portare via, oppure ci si può guardare dentro. Friedrich sollevò il coperchio e, porcaccio mondo ladro, vi trovò il tesoro dei bucanieri, la quadratura del cerchio, la pietra filosofale. Pezzi del meccano. Come se avesse scoperto la lampada di Aladino, Archimboldi fu segnato dalla grazia pitagorica o, per meglio dire, euclidea delle figure geometriche potenziali, di quelle strutture (Marx). Macchinalmente, mise a punto il suo totem. Senza scomodare Benjamin, Agamben, Deleuze, Debord, il totem ci stava tutto. Mortacci sua se ce stava.

Saverio Bragantini,
docente di storia dell'arte sperimentale, contemporanea e futura

venerdì 16 settembre 2011

Secchio per la spazzatura

Friedrich von Archimboldi, Secchio per la spazzatura (2011)
Non va preso sul serio questo tentativo di assemblaggio, sicuramente frutto di un perlustrazione in discarica o di una lunga camminata su una tangenziale, chissà dove. Il ritorno alla plastica, poi, è semplicemente assurdo. Amen.

Saverio Bragantini

Loop

Friedrich von Archimboldi, Loop (2011)
Accorci la catena, sposti la ruota posteriore, il tendicatena non lavora come dovrebbe, riduci ancora, usi la catena a mezze maglie, imprechi, bestemmi la lunghezza delle maglie, riduci la corona, aumenti i denti del pignone, alla fine cadi in deliquio come nell'Opera dell'Ottocento quando non si sa come fare andare avanti la vicenda, sognando mozzi e movimenti centrali ellittici inarrivabili; ricominci,  togli la pedivella, togli i pedali, alla fine togli la bici, accorci, accorci ancora e alla fine ti rimane fra le mani questo Loop.
Un oggetto dall'uso imprecisato. Un fermacarte? Ma quali carte può fermare Archimboldi sulle montagne del Matese, dove pare sia stato avvistato l'ultima volta, con la solita faziosa appendice (denuncia del furto di alcuni vegetali e di qualche modesto apporto proteico)? Al massimo con l'artefatto lui ci ferma le foglie del giaciglio provvisorio. No. Loop è il distillato statico del movimento, surplace dell'intenzione, sottopentola della coscienza di uno che, solo come un cane, ha trovato un altro cane e se ne è andato in bmx per le verdi praterie dei pellerossa: un po Casertano, un po' Molise, ma soprattutto lo sconfinato territorio dell'immaginazione.

Saverio Brigantini

mercoledì 7 settembre 2011

Friedrich von Archimboldi, Più niente da dire (2009)

Nel riesumare le opere d'esordio di Archimboldi - lampante pseudonimo provvisorio, erratico, e sappiamo a quanti alter ego ci siamo abituati in questi ultimi anni di mercantilismo selvaggio - si staglia evidente la netta cesura fra queste e le opere "ciclistiche", imperniate sull'"avanzo dell'avanzo", come lo ha definito l'autore. Le opere di ingranaggi, cerchioni, molle e catene sono tutte successive alla fuga nei boschi a bordo di una bmx, con un cane al seguito (piuttosto un cane-guida che sceglie l'itinerario e anche la dimora del tutto provvisoria dei due). Più niente da dire ammette che lui ha scritto, ma in definitiva ha detto molto, sicuramente troppo, comunque non poco, meno che mai è stato zitto. Una cifra piuttosto alta che corrisponde al contenuto in inchiostro di sette penne a sfera bic, che si tengono in piedi con un laccio: posizione innaturale per una penna, almeno di una penna vuota, che non sta quindi scrivendo: sta zitta, ma coralmente (il che aggiunge un tocco beckettiano). Ma quanti accidenti di metri d'inchiostro si scrivono con una penna a sfera? A dire degli esperti di penne bic, che sono pochi, ma agguerritissimi, sette penne a sfera scrivono per parecchi chilometri. Basta vedere cosa dice il sito bicworld:" Per quanto tempo scrive una penna BIC® prima che si esaurisca l'inchiostro? Ogni penna a sfera BIC® può generare tra due e tre chilometri (più di due miglia) di scrittura". Pertanto un totale fra i 14 e i 21 chilometri. Cascate, torrenti, affluenti, fiumi di parole, spesso poi neanche rilette, sennò si rallenterebbe la scrittura. 
Dunque un mare di carta scritta, ma anche la consapevolezza serpeggiante che quelle cannule trasparenti sarebbero perfettamente riutilizzabili e in grado di accogliere un nuovo pennino, altro inchiostro, altri fiumi, ma è evidente che si preferisce gettar plastica e venderne di nuova, con tutto quello che ne consegue. Una strada, quella della materia plastica, che Archimboldi abbandonerà quasi subito a favore del metallo, materiale elettivo almeno a partire dall'epoca del fatto di Valle Rotta. Ricorderete probabilmente quel futile diverbio per alcune verdure prelevate dal Nostro in una fazenda di facinorosi e aggressivi fattori.
Qui non è forse azzardato tirare in ballo come protagonista il tempo, impersonificato dallo scorrimento della sfera sulla carta, a mo' di sismografo emotivo. Una a-cronia a posteriori, capriola della storia, calcioinculo esistenziale, l'artefatto di Archimboldi si manifesta solo dopo che l'evento si è compiuto, ovvero la lunga prassi - del tutto inutile in termini utilitaristici - di compilare quaderni di appunti che poi non vengono mai riletti. Un'attività che Archimboldi ha a lungo coltivato, almeno fino alla sua sparizione dai circuiti ufficiali. 
O forse questo Più niente è soltanto l'instaurarsi di un crudele gioco di rifrazioni, in cui lo spettro del visibile finisce intrappolato in una tonnara di plastica.
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Saverio Bragantini
Friedrich von Archimboldi, Salonmusik (2011), particolare

martedì 31 maggio 2011

Friedrich von Archimboldi, Ruota (2010)

lunedì 23 maggio 2011

Voglio la repubblica ciclabile

Friedrich von Archimboldi, Repubblica ciclabile (2011)
Friedrich von Archimboldi è il fratello minore del più noto scrittore Benno von Archimboldi. La sua vita è avvolta nel mistero. Se di Benno si conosce almeno la data di nascita, di lui non si sa niente. Pare che viva nei boschi con una bmx e il suo cane. Il mondo sbavante dell'arte contemporanea ha tentato più volte di contattarlo, ma inutilmente. Artefatto di rottami, chissà se piace a Rainer Ganahl.