martedì 11 ottobre 2011

Come conobbi Archi / 1


Era probabilmente il 1970 e si era da poco consumata l'ennesima scissione tra le fila della critica militante più avanzata. Un piccolo e determinato drappello era intenzionato a mettere in scena a tutti i costi la pièce Ledantju CoMunfaro (1923) di Zdanevic. Eravamo pronti a tuffarci nel dada con tutte le nostre forze, costasse quel che costasse. Dada puro, da far piovere sugli spettatori inermi come una pioggia fittissima che alla fine ti lascia completamente zuppo.
Gli attori erano dei cani. No, forse esagero diciamo che non erano adatti a quel testo, redatto in linguaggio zaum, che richiede spiccate doti performative, anzi direi una particolare vocazione, come una chiamata dall'alto che impone la parola come unico veicolo, ma una parola insensata, apparentemente almeno. Li cacciammo via. Fummo inflessibili, ma credo che loro se ne andarono sollevati.
Girò la voce nel tam tam dell'avanguardia più radicale che c'era una persona adatta, in grado di farsi carico dell'intera pièce da solo, uno spiantato artistoide che vagava per Roma su una Legnano dal tipico colore verde che, però, a forza di colpi di sole, era diventata gialla e s'era anche un po' arruginita. Ci demmo appuntamento di fronte al teatro dove avremmo dovuto mettere in scena (per modo di dire) l'opera. Sulla scena povera nessuno aveva avuto nulla in contrario. Noi eravamo poveri e non mangiavamo un pasto come si deve da diversi giorni.

L'arrivo di Archi che, come oggi, procedeva per lo più spingendo la bici a piedi, ci lasciò costernati. Un fagotto umano, smunto, grigio, che sembrava una foto in bianco e nero scolorita dal sole e dalla pioggia, con i capelli lunghissimi. Si esprimeva a monosillabi.Fummo colti dalla depressione. Gli consegnammo quella partitura di parole intricata, subdola, dove basta un nulla per scoppiare a ridere o andarsene. Quando provammo, restammo colpiti dalla capacità di Archi di emettere tutti quei fonemi, come se li avesse avuti impressi nella mente da sempre. Alla serata assistettero, oltre a noi e al bigliettaio (che però dormì per tutto il tempo), quattro spettatori i quali, nel complesso, accolsero positivamente l'opera. E quattro spettatori, per una cosa del genere, non erano neanche pochi. L'idea di un reading di Zga Yakaby ci balenò per qualche sera, ma poi lasciammo perdere. Archi - che allora mi era noto soltanto con il suo vero nome di battesimo - aveva già fatto perdere le tracce.

Saverio Bragantini

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