Da D-La Repubblica
Ciclisti
Divagazioni e sconfinamenti di una madre veramente (veramente) moderna di Elasti
Qualche settimana fa stavo tornando dall’ufficio, in bicicletta. C’era vento. Noi ciclisti milanesi non siamo abituati al vento. Ci fa sbandare, ci coglie di sorpresa, ci innervosisce, perché noi, ciclisti milanesi, siamo piuttosto irritabili.
È suonato il cellulare. Mi sono fermata, ho finito di imprecare contro gli agenti atmosferici ostili e ho risposto.
«Pronto, sono io. Sono in macchina, sto andando a prendere il piccolo al nido ma sono bloccato nel traffico». Era mio marito, la voce concitata. «E quindi?». «Un ciclista, a tre isolati da casa nostra. È stato ucciso. Da qui vedo la bicicletta distrutta, un lenzuolo bianco che lo copre, la polizia che ha bloccato la strada. Non ho il numero dell’asilo. Puoi chiamare tu e avvertire del mio ritardo?».
Ho scoperto, il giorno dopo, che era un giornalista, si chiamava Pier Luigi Todisco, aveva 52 anni, una moglie e due figli e stava andando a lavorare, in bicicletta, come faceva tutti i giorni. È stato travolto da un camion. È successo a Milano, vicino a casa mia, a poca distanza da una scuola elementare, da una scuola superiore e dall’asilo nido di mio figlio. In una strada di negozi, di autobus, di signore che fanno la spesa, di bambini che attraversano, di ciclisti che vanno a lavorare. In una strada senza piste ciclabili, battuta da un insolito vento, in un pomeriggio come tanti.
La civiltà di una città passa anche da qui. La vivibilità di una città dovrebbe riguardare la qualità della vita, non il diritto ad essa.
Ho avvertito l’asilo nido del ritardo. Sapevano già tutto.
Ho pensato che sarebbe potuto succedere a me, a quel ragazzo con il cane nel cestino, alla signora con il caschetto, a quella mamma con il figlio dietro, sul seggiolino.
Ho pensato che non avevo il coraggio di pedalare ancora.
Poi mi sono ricordata di avere letto da qualche parte che più ciclisti circolano più si riducono gli incidenti, mi sono ricordata che la civiltà passa anche dal non avere paura, mi sono ricordata che se ci facessimo inghiottire dai nostri fantasmi ci spegneremmo.
E sono tornata a casa, dall’ufficio, in bicicletta, in una città stranamente ventosa, ostile e triste.
È suonato il cellulare. Mi sono fermata, ho finito di imprecare contro gli agenti atmosferici ostili e ho risposto.
«Pronto, sono io. Sono in macchina, sto andando a prendere il piccolo al nido ma sono bloccato nel traffico». Era mio marito, la voce concitata. «E quindi?». «Un ciclista, a tre isolati da casa nostra. È stato ucciso. Da qui vedo la bicicletta distrutta, un lenzuolo bianco che lo copre, la polizia che ha bloccato la strada. Non ho il numero dell’asilo. Puoi chiamare tu e avvertire del mio ritardo?».
Ho scoperto, il giorno dopo, che era un giornalista, si chiamava Pier Luigi Todisco, aveva 52 anni, una moglie e due figli e stava andando a lavorare, in bicicletta, come faceva tutti i giorni. È stato travolto da un camion. È successo a Milano, vicino a casa mia, a poca distanza da una scuola elementare, da una scuola superiore e dall’asilo nido di mio figlio. In una strada di negozi, di autobus, di signore che fanno la spesa, di bambini che attraversano, di ciclisti che vanno a lavorare. In una strada senza piste ciclabili, battuta da un insolito vento, in un pomeriggio come tanti.
La civiltà di una città passa anche da qui. La vivibilità di una città dovrebbe riguardare la qualità della vita, non il diritto ad essa.
Ho avvertito l’asilo nido del ritardo. Sapevano già tutto.
Ho pensato che sarebbe potuto succedere a me, a quel ragazzo con il cane nel cestino, alla signora con il caschetto, a quella mamma con il figlio dietro, sul seggiolino.
Ho pensato che non avevo il coraggio di pedalare ancora.
Poi mi sono ricordata di avere letto da qualche parte che più ciclisti circolano più si riducono gli incidenti, mi sono ricordata che la civiltà passa anche dal non avere paura, mi sono ricordata che se ci facessimo inghiottire dai nostri fantasmi ci spegneremmo.
E sono tornata a casa, dall’ufficio, in bicicletta, in una città stranamente ventosa, ostile e triste.
(18 ottobre 2011)
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