Ignazio Visco: Il capitale umano
L'80% deli italiani tra i 16 e i 64 anni ha un'insufficiente "competenza alfabetica funzionale" (non padroneggia la lingua)
L'80% deli italiani tra i 16 e i 64 anni ha un'insufficiente "competenza alfabetica funzionale" (non padroneggia la lingua)
Il prevedibile calo dell’offerta di lavoro potrà essere compensato solo con un prolungamento della vita lavorativa, salvo ipotizzare un’insostenibile accelerazione dei flussi migratori. Le stime dell’Istat già incorporano un afflusso netto di immigrati di oltre 170.000 unità all’anno nei prossimi quarant’anni. Nel 2050 gli stranieri residenti supererebbero i 10,5 milioni, oltre il 17 per cento della popolazione totale. Si stima che, comprendendo anche le seconde generazioni, circa il 37 per cento delle persone di età compresa tra i 15 e i 54 anni sarà nato all’estero o in Italia da genitori immigrati.
Forze della demografia e forze dell’economia
L’invecchiamento della popolazione italiana non ha però solo implicazioni per l’offerta di lavoro. La popolazione anziana richiede servizi di cura e assistenza che sono per loro natura ad alta intensità di lavoro. In effetti, quasi metà dell’aumento di 2,6 milioni di occupati tra il 1993 e il 2009 è avvenuta nella sanità e nell’assistenza sociale, negli altri servizi pubblici, sociali e personali, e nelle attività svolte da famiglie.
In breve, la demografia ci darà una forza lavoro sempre più anziana ed eterogenea nella sua provenienza geografica. Ciò richiede investimenti nella formazione permanente per riqualificare persone a cui è chiesto di rimanere più a lungo al lavoro e politiche di integrazione per gli immigrati, soprattutto nelle scuole per facilitare l’inserimento delle seconde generazioni. La crescente domanda nelle attività di cura offrirà nuove opportunità di occupazione, se il sistema produttivo sarà in grado di sostenerle.
In ogni caso, la questione centrale rimane quella della crescita economica. Sullo sfondo sono le due grandi forze che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio: la globalizzazione, con l’ingresso nel sistema degli scambi (non solo commerciali) di aree e grandi potenze prima autarchiche, e lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con un impatto trasversale e crescente su tutti i settori economici e sulla società in generale.
Con la globalizzazione sono cresciuti impetuosamente la dimensione dei mercati e gli scambi commerciali, si sono affermati sulla scena mondiale nuovi grandi protagonisti: tra il 1993 e il 2009 la quota di Brasile, Cina, India e Russia è salita da meno di un sesto a quasi un quarto del prodotto mondiale. La rapida crescita economica dei Paesi emergenti, impegnati in uno straordinario processo di catching up, ha innalzato il benessere per molti abitanti del pianeta. Questo progresso pone tuttavia sfide assai grandi, non solo per l’esclusione di ampie fasce di popolazione che ancora non ne beneficiano nei Paesi emergenti e in quelli rimasti ai margini del processo, ma anche per le prospettive di reddito e occupazione delle economie più avanzate.
La pressione competitiva può essere particolarmente difficile da sostenere, in particolare in Paesi come il nostro dove la specializzazione produttiva non comporta l’utilizzo di tecnologie altamente avanzate, vi è abbondanza di lavoro con qualificazioni relativamente basse e la dimensione media delle imprese è ridotta. La concorrenza tende a ridurre i prezzi, con beneficio per i consumatori indipendentemente da dove vengano prodotti i beni e i servizi che essi acquistano, ma comporta una pressione sui margini di profitto delle imprese nazionali. Si stima che l’aumento della penetrazione delle importazioni cinesi abbia contenuto la crescita dei prezzi alla produzione praticati dalle imprese manifatturiere italiane nel periodo 1996-2006 di circa 10 punti percentuali; l’effetto è più forte per le imprese meno produttive e proprio in quei settori dove è più intenso il ricorso a manodopera poco istruita[ii].
L’integrazione dei mercati mondiali si è intersecata e, per molti versi, è stata alimentata dall’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che hanno radicalmente cambiato l’organizzazione del lavoro e i nostri stessi stili di vita. Il ritardo nell’adozione di queste nuove tecniche può aver rappresentato per molti una grave perdita competitiva, minando le stesse possibilità di crescita nel lungo periodo. In Italia, gli investimenti nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) e il loro utilizzo nei processi produttivi sono ancora molto più bassi che nei nostri principali partner. In rapporto al complesso degli investimenti fissi (al netto delle costruzioni), essi si ragguagliano a circa l’11 per cento, contro il 16 e il 14 per cento di Francia e Germania e il 20-25 dei Paesi nordici della Ue (così come del Regno Unito e degli Stati Uniti). In parte, questo può riflettere l’arretratezza del nostro capitale umano, in parte, le caratteristiche strutturali del nostro sistema industriale – dove pure sono in corso cambiamenti di rilievo – e in particolare il fatto che le nostre imprese sono in media molto più piccole di quelle dei nostri partner.
Come cambierà la domanda di lavoro
Quindici anni fa, Richard Freeman si chiedeva retoricamente se i nostri salari non fossero ormai fissati a Pechino[iii]. La pressione competitiva della Cina e delle altre economie emergenti ha avuto profonde ripercussioni sui mercati del lavoro dei Paesi avanzati, soprattutto indebolendo le prospettive di reddito e l’impiego dei lavoratori meno qualificati, sui quali è ricaduto l’onere maggiore della globalizzazione. Difficilmente i salari e le condizioni di lavoro degli operai che nei distretti tradizionali del nostro Paese producono per un mercato standardizzato globale possono essere isolati da ciò che avviene in Cina, Romania o Tunisia. Se pure questo effetto è innegabile, esso non è però il solo: gli sviluppi tecnologici sono un altro potente fattore che influenza la struttura della domanda di lavoro.
Per lungo tempo, l’interpretazione prevalente è stata che le nuove tecnologie avvantaggiano i lavoratori skilled rispetto a quelli unskilled, rafforzando e confondendosi con l’effetto della globalizzazione. Ma le conseguenze della diffusione dei computer sono probabilmente più complesse: i computer rappresentano un complemento alle funzioni manageriali e intellettuali non di routine, mentre sono un sostituto per quelle più di routine, che possono essere codificate in una procedura per stadi potenzialmente effettuabile da un sistema computerizzato; il loro impatto è invece di per sé trascurabile per le attività manuali non ripetitive, che non possono essere rimpiazzate da una macchina.
Peraltro, le nuove tecnologie hanno dispiegato solo in parte i loro effetti. Nella Richard T. Ely Lecture al congresso annuale dell’American Economic Association del gennaio 2010, Hal Varian – già autore di alcuni tra i più influenti testi di microeconomia e oggi chief economist di Google – ha prefigurato vari modi in cui l’uso sistematico del computer e di internet influenzerà le transazioni economiche: stimolerà la nascita di nuove forme contrattuali, rendendo possibile monitorare il comportamento dei contraenti e quindi l’adozione di clausole condizionali su aspetti che in passato non erano osservabili; faciliterà l’estrazione e l’analisi di dati e agevolerà la conduzione di esperimenti controllati, per esempio sulle preferenze degli individui che utilizzano la rete; renderà possibile una crescente personalizzazione delle offerte ai consumatori, in termini di prezzo e prodotti proposti. Questo quadro indica la necessità di disporre di nuove professionalità, come la capacità di raccogliere, gestire e analizzare tempestivamente le banche dati, grandi e piccole, raccolte nella rete. Più in generale, suggerisce che le competenze, degli operatori come degli utilizzatori, dovranno essere aggiornate rapidamente, per la velocità con cui vengono introdotte le applicazioni per internet.
Si aprono nuovi spazi di interazione; ad esempio, il cloud computing consente di migliorare la produttività di chi lavora nel settore della conoscenza grazie alla possibilità di prescindere da una comune residenza fisica delle persone che collaborano a un progetto. Molte delle occupazioni legate alla conoscenza possono però essere svolte in modalità di interazione remota e non sono quindi isolate dalla concorrenza dei Paesi emergenti. È questa una delle caratteristiche salienti dell’attuale fase di globalizzazione: l’unbundling, come l’ha definito Richard Baldwin, ovvero la possibilità di delocalizzare non un’intera produzione, ma solo alcune sue parti, quali per esempio la progettazione. L’esperienza recente mostra che i Paesi avanzati che stanno meglio cogliendo le opportunità offerte dal nuovo paradigma tecnologico e dall’integrazione dei mercati mondiali sono quelli che hanno puntato a sviluppare le fasi di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, del design, dei servizi di marketing, della logistica. Un esempio illuminante è quello dell’iPod: solo il 2 per cento del suo prezzo di vendita finale arriva al Paese produttore del manufatto fisico[iv]. Il resto è distribuito tra i servizi di progettazione, distribuzione, marketing, design.
In generale, i fenomeni di fondo che stanno investendo le nostre economie modificheranno profondamente anche le caratteristiche professionali richieste ai lavoratori del XXI secolo. Già si osserva in molti Paesi una “polarizzazione” delle professioni: una crescita più pronunciata delle mansioni manuali e delle professioni a più alta qualificazione a scapito degli impieghi intermedi. La rapidità e l’imprevedibilità dei cambiamenti impongono di accrescere la velocità di risposta dell’economia, un problema che riguarda l’intero Paese, le sue istituzioni e il suo sistema produttivo, non solo il capitale umano e l’adattabilità della sua forza lavoro. Si è fortemente ridotta la nostra capacità di prefigurare quali saranno i nuovi beni e servizi richiesti di qui a pochi anni tanto è rapido il processo di innovazione tecnologica. Altrettanto difficile è prevedere le nuove professionalità necessarie a produrli.
È altamente probabile tuttavia che con il proseguimento della tendenza a una progressiva scomparsa dei lavori a contenuto più routinario a favore di quelli non di routine, già emersa negli anni Ottanta in occasione della prima ondata di diffusione dei personal computer, i nuovi lavori che via via si renderanno disponibili con il procedere dell’innovazione tecnologica richiederanno di andare oltre l’applicazione di conoscenze standardizzate. Il capitale umano non tenderà più a coincidere semplicemente con il bagaglio conoscitivo delle persone e la produttività dei lavoratori non sarà più essenzialmente legata alle conoscenze acquisite una volta per tutte sui banchi di scuola e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa. Assumerà invece importanza crescente ciò che gli educatori definiscono come “competenza”: la capacità, cioè, di mobilitare, in maniera integrata, risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente non di routine.
La crescita del capitale umano: istruzione, conoscenze, competenze
Da qualche anno le raccomandazioni ad accrescere il capitale umano si sono fatte più ricorrenti e sono ormai una costante del dibattito di politica economica e non solo. In effetti le evidenze empiriche non lasciano dubbi[v]. In termini di stock di capitale umano il nostro è un Paese arretrato e, almeno per quanto riguarda i laureati, continua ad arretrare nei confronti dei Paesi avanzati. La loro quota sulla popolazione, pur aumentata dal 9 al 14 per cento tra il 1998 e il 2008, è cresciuta meno di quella dei nostri partner; nel 2008 il divario è così salito da 12 a 14 punti percentuali rispetto alla media Ocse (da 10 a 11 rispetto alla Ue). Il risultato è che il divario per la popolazione giovane è oggi superiore a quello per la popolazione di età 55-64 anni.
Gli anni medi di istruzione sono ancora, tuttavia, una misura piuttosto imprecisa della dotazione di capitale umano. Anche alla luce delle considerazioni precedenti, una misura più adeguata è quella basata sulla rilevazione delle conoscenze e delle competenze della popolazione. Ora, le competenze della popolazione oltre l’età dell’obbligo scolastico sono nel nostro Paese inferiori a quelle di tutti i Paesi che hanno partecipato all’ultima indagine condotta dall’Ocse in materia, che risale al 2003. Secondo questa indagine, l’Adult Literacy and Lifeskills (All), la popolazione adulta italiana, presa nel suo complesso, non possiede una “competenza alfabetica funzionale” adeguata alle esigenze di un Paese avanzato: l’80 per cento circa degli italiani di età compresa tra i 16 e i 64 anni ha un livello di padronanza della lingua madre giudicato sostanzialmente insufficiente. In confronto, nei Paesi con competenze più elevate (come la Norvegia) questa quota non supera il 30 per cento mentre in quelli in posizione intermedia (Canada, Stati Uniti, Svizzera) non si va oltre il 50 per cento. Se questo dato risente dello sviluppo relativamente recente della scolarità di massa in Italia, non sembra che questa sia l’unica causa: la stessa indagine All mostra infatti come nella fascia di età fra i 16 e i 25 anni l’Italia evidenzi un divario rispetto agli altri Paesi solo marginalmente inferiore a quello che caratterizza la classe di età tra i 46 e i 65 anni[vi].
Per le generazioni più giovani, nelle tre indagini Pisa condotte dall’Ocse tra il 2000 e il 2006, l’Italia ha sempre evidenziato un significativo ritardo nelle competenze degli studenti quindicenni (in Italia per il 92 per cento all’interno della scuola media superiore) in ciascuno degli ambiti indagati, quantificabile, rispetto alla media dei Paesi Ocse, in poco meno di quello che si impara in un anno di scuola. Dal confronto tra Pisa e le altre indagini internazionali relative a momenti precedenti dell’iter scolastico, appare però evidente come questo ritardo derivi da un progressivo deterioramento qualitativo con il procedere dei vari ordini di scuola. L’evidenza è congruente con la diffusa opinione di una buona qualità delle nostre scuole elementari e di una deludente qualità della scuola media. Di fatto, la scuola elementare sembra efficace nel favorire l’apprendimento della lettura e delle scienze, meno per la matematica, indipendentemente dal set di Paesi presi a riferimento. Nella scuola secondaria di primo grado i risultati in scienze sono peggiori della media delle indagini internazionali, indipendentemente dal gruppo di Paesi scelti come riferimento, e le difficoltà nella matematica si aggravano.
Occorre quindi decisamente “investire in conoscenza”, ma occorre anche approfondire quali sono e come accrescere le “competenze” di cui vi sarà sempre più bisogno. Al riguardo, la discussione è in atto da alcuni anni e coinvolge il mondo della ricerca pedagogica ma anche quello dell’economia. A titolo di esempio si può citare il progetto “Partnership for 21st Century Skills”, una iniziativa congiunta del governo federale e di alcune importanti imprese statunitensi finalizzata ad agire come catalizzatore per colmare il divario tra quello che gli studenti imparano a scuola e quello che servirà loro nel mondo del lavoro. Oltre al bagaglio irrinunciabile costituito da conoscenze tradizionali (lingue, matematica, scienze, economia, educazione civica, ma anche storia, arte, geografia), sempre più occorrerà integrare la padronanza dei concetti afferenti a queste discipline con quelle che stanno emergendo come le competenze del XXI secolo: l’esercizio del pensiero critico e l’attitudine al problem solving, la creatività e la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo[vii].
I Paesi Ocse stanno ora avviando un’indagine disegnata appositamente per misurare l’attitudine al problem solving nella popolazione adulta (Piaac), riprendendo iniziative precedenti, quali All e la precedente Ials, che già avevano indagato le cosiddette literacy e numeracy degli adulti[viii]. Oltre al coinvolgimento di un più ampio numero di Paesi, pressoché tutti quelli avanzati membri dell’Ocse, la nuova indagine si caratterizzerà per una maggiore attenzione all’uso e alle ricadute (in termini di reddito e di condizione lavorativa) delle competenze possedute dagli adulti nel mondo del lavoro. Tra queste saranno incluse, per la prima volta, anche le capacità di problem solving in un contesto caratterizzato dalle nuove tecnologie e le difficoltà linguistiche specificamente incontrate dai soggetti con un basso livello di literacy. Per un sottoinsieme di Paesi, sarà possibile tracciare un quadro evolutivo delle competenze effettivamente possedute dagli adulti.
L’Italia partecipa a questa iniziativa, anche se purtroppo non al modulo sul problem solving nei contesti Ict. Sarà importante che i dati, che per l’Italia verranno raccolti dall’Isfol per conto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, diano luogo ad approfondite riflessioni, così come è gradualmente accaduto con i dati raccolti da Pisa, che stanno utilmente stimolando un ragionamento sulla efficacia e sulla equità del nostro sistema educativo.
Le condizioni per la formazione del nuovo capitale umano
La scuola tradizionale era fondata sulla trasmissione di un corpo standardizzato di conoscenze, organizzato per discipline. L’attenzione era centrata sul sapere, sull’acquisizione di nozioni e procedure ben codificate. I metodi di insegnamento erano funzionali a questi obiettivi. La struttura della classe, il suo layout fisico, la scansione degli orari delle lezioni, il ruolo degli insegnanti erano tutti coerenti con l’idea che vi fosse un depositario della conoscenza con il potere e la responsabilità di trasmetterla ad alcuni soggetti in condizione di subordinazione. L’organizzazione del mercato del lavoro con scale salariali che riflettevano da vicino i livelli di istruzione forniva agli studenti i corretti incentivi per motivarli a conformarsi al modello di scuola proposto.
È lecito chiedersi se questa tecnologia possa produrre il capitale umano necessario per il XXI secolo. È probabile che siano invece da ripensare i tradizionali rapporti tra conoscenze e risoluzione di problemi, tra sapere e saper fare, tra conoscenza e pratica. Il superamento di metodi didattici fondati su una sostanziale separazione tra l’apprendimento delle conoscenze e il loro successivo utilizzo nella vita lavorativa potrebbe richiedere l’introduzione di importanti cambiamenti nell’organizzazione scolastica, nei metodi di insegnamento, negli stessi edifici e ambienti scolastici. La situazione di partenza della nostra scuola non facilita questi cambiamenti.
L’età media dei nostri insegnanti è elevata: se pure rappresenta un patrimonio di conoscenze ed esperienze che non va trascurato, difficilmente favorisce la spinta a ripensare ruoli e metodi di insegnamento. La struttura dei contratti di lavoro e le regole di mobilità tra scuole degli insegnanti producono un elevatissimo turnover dei docenti: in media, ogni anno cambia scuola un insegnante su quattro. L’alto numero di insegnanti nel confronto internazionale (oltre 800.000 di cui poco meno di 94.000 assunti con contratti con scadenza inferiore all’anno e altri 24.000 con contratti annuali) si traduce in lunghe liste di attesa che rendono difficile reclutare nuovi docenti formati ai metodi educativi più efficaci per lo sviluppo delle competenze per il XXI secolo. La scarsità dei fondi a disposizione, l’assenza di un obbligo contrattuale alla formazione, lo scoraggiamento rendono altrettanto difficile la modifica dei comportamenti di chi sta già insegnando. Eppure vi è bisogno di interventi formativi, così come di un sistema efficace di incentivi e di validi criteri di selezione in grado di differenziare e dare adeguato riconoscimento al merito, alla preparazione e alle condizioni ambientali.
Il rilancio della scuola, in ultima analisi, è un tema centrale della politica economica, non una semplice questione di finanza pubblica né tanto meno una questione settoriale. Questo spiega ovviamente l’attenzione che questo tema oggi riceve.
Ma l’investimento in capitale umano non è solo quello che si effettua nella scuola. In Italia, gli aspetti formativi dell’apprendistato sono spesso carenti, anche per lo iato tra attività formative esplicite predisposte dalle regioni, competenti in materia, e vita aziendale; mancano prassi di certificazione delle competenze effettivamente acquisite sul posto di lavoro; l’apprendistato è spesso un mero strumento contrattuale per ridurre il costo del lavoro e rendere temporaneo il rapporto tra impresa e lavoratore. Questa difficoltà di sviluppo del sistema formativo presso le imprese deriva anche dalla particolare natura del nostro sistema produttivo, incentrato sulle piccole e piccolissime imprese per le quali non è agevole istituire percorsi formativi al loro interno.
Occorre comprendere che sempre più l’investimento in capitale umano è un’attività da coltivare lungo l’intero arco della nostra vita. Non lo si può limitare agli anni di studio nella scuola e nell’università, né ai primi anni di inserimento nel mercato del lavoro. D’altro canto, questo obiettivo può essere raggiunto solo grazie a profondi cambiamenti nell’offerta formativa delle scuole e forse delle imprese. Soprattutto richiede che siano presenti nel sistema economico adeguati incentivi, tali da spingere chi studia e chi è presente sul mercato del lavoro a investire su di sé, anche al di là di quello che viene garantito dall’istruzione pubblica.
Investire in capitale umano è una buona idea: permette di trovare lavoro più facilmente, di guadagnare di più, di vivere meglio e più a lungo. L’entità di questi benefici, confrontata con quella dei costi da sostenere per istruirsi, determina l’entità dell’investimento. Pure, oggi gli incentivi monetari che dovrebbero indurre i giovani a preferire il duro lavoro su se stessi rispetto alle scorciatoie troppo spesso indicate dai prevalenti modelli culturali non sembrano nel nostro Paese elevati, se confrontati con quanto avviene in altre nazioni.
Sulla base dei dati pubblicati nell’ultimo Education at a Glance dell’Ocse, mentre un diplomato di età compresa tra i 25 e i 34 anni guadagna in Italia circa il 10 per cento in più di un coetaneo senza un diploma, in Germania, nel Regno Unito e negli Stati Uniti i divari sono notevolmente più ampi (pari rispettivamente, nel 2008, al 14, al 39 e al 45 per cento). Una situazione forse anche peggiore si riscontra tra i laureati. In Italia una laurea consente a un giovane di età compresa tra i 25 e i 34 anni di avere un reddito da lavoro di circa 24 punti percentuali superiore a quello di un diplomato, un valore basso nel confronto internazionale: il “premio” di laurea per i giovani francesi è del 36 per cento, per i tedeschi del 46, del 49 e 65 per cento per gli inglesi e gli americani.
I differenziali salariali in Italia non sono solo oggi inferiori a quelli di altri Paesi, ma sono anche, per dato livello di istruzione, assai meno ampi per i lavoratori più giovani di quelli per i più anziani; bassi sono quindi gli incentivi ad investire in capitale umano. La retribuzione di un diplomato di età compresa tra i 55 e i 64 anni è mediamente del 64 per cento più elevata di quella di un lavoratore privo di diploma di scuola secondaria superiore (dati del 2006), contro il 10 per cento per un giovane di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Sempre nella fascia di età 55-64, un laureato guadagna il 46 per cento in più di un diplomato, a fronte del 24 per cento di cui si è detto sopra per la fascia di età più giovane. Per un giovane laureato i salari di ingresso nel mercato del lavoro sono oggi pari in termini reali a quelli di trenta anni fa[ix]. I giovani che si affacciano oggi sul mercato del lavoro sono quindi esclusi dai benefici della crescita del reddito occorsa negli ultimi decenni.
Un incentivo a investire in istruzione potrebbe venire dalla constatazione che chi studia ha una probabilità di trovare un lavoro stabile più elevata degli altri. L’equivalenza tra titoli di studio elevati e qualità e sicurezza del posto di lavoro era una certezza della quale hanno goduto molte generazioni fino alla metà degli anni novanta. Da allora le prospettive offerte dal mercato del lavoro si sono fatte più incerte, la peregrinazione tra non partecipazione alle forze di lavoro, disoccupazione, collaborazioni coordinate e continuative e a progetto, contratti di lavoro a tempo determinato è diventata la caratteristica di una intera generazione quasi indipendentemente dal livello di istruzione posseduto.
Secondo le rilevazioni dell’Istat, solo un quarto circa dei giovani tra 25 e 34 anni occupati nel 2008 con un contratto a tempo determinato o di collaborazione aveva trovato dopo 12 mesi un lavoro a tempo indeterminato o era occupato come lavoratore autonomo, mentre oltre un quinto era transitato verso la disoccupazione o era uscito dalle forze di lavoro. Al titolo di studio non sembra essere associata una più alta probabilità di “transitare” verso un’occupazione stabile: tra il 2008 e il 2009 questo è stato il caso per meno di un terzo dei lavoratori privi di un diploma di scuola secondaria superiore, contro un quarto dei lavoratori con un diploma o una laurea.
Forse le difficoltà che incontrano i nostri giovani sul mercato del lavoro dipendono esse stesse dalla transizione verso un nuovo equilibrio. Da un lato, se la qualità dell’istruzione fornita dal sistema scolastico fosse mediamente inadeguata, le imprese potrebbero rispondere, in condizioni di informazione imperfetta, con un’offerta generalizzata di bassi salari. Dall’altro, sempre più il mercato potrebbe chiedere oggi a studenti educati in un sistema scolastico tradizionale competenze nuove, adatte a operare nel XXI secolo. I giovani pagano con bassi salari e condizioni di lavoro precarie l’incompatibilità tra ciò che sanno e ciò che viene loro richiesto. È dubbio che queste condizioni favoriscano l’investimento su se stessi a cui così spesso vengono invitati. Certo, la crisi economica e le difficoltà di crescita della nostra economia, in un contesto di cambiamenti epocali, hanno contribuito a rendere l’adeguamento della struttura produttiva particolarmente difficile, con conseguenze di rilievo anche nel mercato del lavoro. La maggiore flessibilità ha certamente reso più agevole l’assorbimento della disoccupazione, particolarmente elevata alla metà degli anni novanta. Bisogna però chiedersi perché ereditiamo un sistema di incentivi così distorto che mina alla base la capacità della nostra economia di segnalare agli agenti la direzione nella quale l’allocazione delle risorse offre i migliori rendimenti per tutti.
Nel caso dei giovani il nodo può stare nella modalità con la quale abbiamo liberalizzato il mercato del lavoro e l’uso che abbiamo fatto dello spazio creato da un mercato più libero. Gli strumenti di flessibilità via via disegnati tra la metà degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo hanno riguardato quasi esclusivamente le nuove coorti entrate nel mercato del lavoro; su di esse si è scaricato l’intero onere dell’aggiustamento strutturale reso necessario dall’innovazione tecnologica, l’apertura dei mercati e l’impossibilità di ricorrere a ulteriori svalutazioni del cambio. È possibile che la stortura nel sistema degli incentivi derivi dal fatto che abbiamo utilizzato i margini ottenuti con la maggiore flessibilità del mercato del lavoro, e la contestuale riduzione dei salari reali, per garantire comunque la sopravvivenza anche a quelle imprese che non hanno intrapreso il necessario aggiustamento strutturale.
Sciogliere i nodi
La crisi finanziaria e la recessione globale hanno colto il nostro Paese in un momento delicato, di trasformazione del suo sistema produttivo dopo quindici e più anni di stagnazione economica. I dati sono noti, ma può essere utile ricordare che la produttività totale dei fattori, una variabile utilizzata per approssimare il miglioramento nell’efficienza produttiva, era nel 2009 appena superiore al livello del 1993, con un incremento complessivo del 2 per cento nel settore privato e del 3,6 nell’industria in senso stretto. Nel biennio 2006-07, prima dello scoppio della crisi, si erano tuttavia manifestati i segni positivi di un processo di ristrutturazione di ampie parti del sistema produttivo italiano.
Le statistiche aggregate nascondono una forte e crescente eterogeneità nella performance aziendale all’interno dei singoli settori. Sono molte le imprese che non hanno compiuto l’aggiustamento strutturale che era necessario. Ma vi sono anche numerose imprese che hanno accresciuto valore aggiunto, produttività e redditività, innovando le strategie aziendali, impiegando forza lavoro più qualificata, rinnovando la gamma dei prodotti, investendo sul marchio, internazionalizzando la rete dei fornitori e l’assistenza post vendita, in breve agendo sui fattori che permettono di fornire un prodotto caratterizzato e differenziato e andare così oltre la pura concorrenza di prezzo[x].
Molti nodi strutturali rimangono insoluti. In un saggio dell’inizio degli anni Novanta si individuava, ad esempio, nel modesto sviluppo quantitativo e qualitativo delle attività terziarie, risultato di un deficit di concorrenza, uno dei potenziali ostacoli alla piena partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea[xi]. Questo sembra ancora essere il caso, come confermano molte analisi più recenti. Inoltre, la ridotta dimensione delle imprese italiane sempre più si rivela un freno allo sviluppo, alla luce dei cambiamenti dell’economia mondiale: difficilmente le piccole imprese possono sfruttare le economie di scala generate dall’internazionalizzazione e dall’innovazione.
La risoluzione di questi nodi è stata rimandata grazie ad alcune delle misure adottate negli ultimi due decenni. Come già notato, le riforme che hanno accresciuto la flessibilità nell’impiego del lavoro hanno facilitato l’aumento dell’occupazione e la riduzione della disoccupazione. Ma ciò è avvenuto in parte rilevante con un maggior ricorso ai contratti a termine che hanno alla lunga effetti negativi sulla produttività del lavoro e la profittabilità. Soprattutto, in assenza di decisi progressi sul fronte della concorrenza e della riduzione di protezioni e di rendite di varia natura, l’abbassamento delle retribuzioni d’ingresso dei più giovani ha consentito di allungare i tempi della risposta del settore produttivo alle sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica.
Alla lentezza della risposta si è quindi accompagnata una relativa salvaguardia dei livelli di occupazione, con il rischio, però, di rendere bassi gli incentivi necessari per effettuare l’investimento in capitale umano dal quale dipende in ultima istanza la possibilità di un ritorno alla crescita nel nostro Paese. Pure, è questa una condizione essenziale, e la natura dell’investimento non è affatto semplice. Non si tratta infatti soltanto di accrescere le conoscenze fornite dal sistema educativo, ma di incrementare le competenze necessarie per lavorare e produrre in un contesto che l’apertura internazionale e l’espansione impetuosa delle nuove tecnologie hanno reso assai diverso da quello prevalente fino a pochi anni fa. Mentre si cerca di uscire dall’attuale fase recessiva, oltre a interrogarsi sulle professionalità e l’adattabilità della forza di lavoro di domani, occorre mettere in atto le iniziative più appropriate, sui diversi piani dell’intervento pubblico, dell’informazione, della risoluzione dei nodi strutturali, per accrescere gli incentivi pubblici e privati a bene investire nella scuola, nel capitale di conoscenze e competenze, nella nostra formazione permanente.
[Fonte: I. Visco, Il capitale umano per il XXI secolo,«Il Mulino» n. 1/2011, pp. 6-20.]
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