È il pensiero unico, la fiducia nei «mercati», la convinzione che «non c'è alternativa», a spingere tutti a pensare che, una volta rimesso in moto il motore (con il taglio della spesa, delle pensioni, dei salari, dell'occupazione, dei servizi pubblici, della ricerca, dell'istruzione e, magari, con qualche miliardo da iniettare in un piano, possibilmente europeo, di «Grandi opere») il mercato, anzi, «i mercati», ci faranno ritrovare la strada della crescita. E a esentare tutti, quindi, dal pensare che cosa occorra veramente per promuovere, stabilizzare e qualificare l'occupazione, salvare il tessuto industriale, le professionalità e le competenze ancora esistenti, restituire fertilità ai suoli e sostenibilità all'assetto idrogeologico; contribuire a salvare il pianeta Terra dagli imminenti sconvolgimenti climatici. La crisi finanziaria ha distolto le menti da questi problemi - soprattutto dall'ultimo, che è il più grande e urgente: non solo in Italia ma in tutto il mondo che fa della crescita il suo feticcio: tanto che a Durban, dove sta per aprirsi la Cop 17, ultima occasione per prendere impegni contro il riscaldamento della Terra, non si concluderà, per l'ennesima volta, niente".
lunedì 14 novembre 2011
Grossa crisi: il default è il meno
"Quando il governo che succederà a Berlusconi avrà fatto l'inventario, se mai avrà il coraggio e la capacità di farlo, di questi 17 anni della sua egemonia - esercitata sia dal governo che dall'opposizione - si troverà di fronte un deserto: uno «spirito civico» devastato in tutti i gangli dell'apparato istituzionale e in tutte le strutture imprenditoriali (corruzione ed evasione fiscale hanno ben lavorato...); un razzismo di stato ormai consolidato, che rende improbo ricreare le condizioni di una convivenza civile; scuola, università e ricerca alle corde; un tessuto industriale ridotto ai minimi termini da chiusure, delocalizzazioni, lavoro nero; tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) in via di smantellamento, e impegnati a «recuperare» produttività con licenziamenti, chiusure e ritmi di lavoro insostenibili; le maggiori catene distributive in mani estere, a fare acquisti lontano dai produttori italiani; un'agricoltura che non esiste più; e pochi settori che ancora esportano, ma ormai incapaci di fare da traino al sistema. Che cosa significa «crescita» in queste condizioni? E di che crescita si parla? Tornare a produrre tante automobili Fiat (suv, soprattutto), portando via quote di mercato a Volkswagen? O tanti elettrodomestici Merloni a spese di Elettrolux? O tante navi da guerra, missili e carri armati in Fincantieri e Finmeccanica? O tante arance commercializzate da mafia e 'ndrangheta? O tanti visitatori stranieri nei nostri musei chiusi e dissestati o nei nostri alberghi formato rapina? O tanti Tav e Ponti e Mose da affidare in concessione, sacrificando la salvaguardia del territorio? O tanti palazzi, e uffici, e condomìni formato Ligresti sui terreni che l'expo avrà «liberato» dall'agricoltura? E può esserci una «crescita» dell'economia italiana, e tale da rimettere in sesto i conti, in un contesto in cui tutti i paesi dell'Occidente, e in parte anche quelli emergenti, prevedono un rallentamento, una stasi o un arretramento della loro? E perché chi continua a vedere nel ritorno alla crescita «la soluzione» non affronta mai queste questioni? Che sono in realtà quelle di una radicale conversione ecologica dell'apparato produttivo, degli stili di vita, della cultura.
È il pensiero unico, la fiducia nei «mercati», la convinzione che «non c'è alternativa», a spingere tutti a pensare che, una volta rimesso in moto il motore (con il taglio della spesa, delle pensioni, dei salari, dell'occupazione, dei servizi pubblici, della ricerca, dell'istruzione e, magari, con qualche miliardo da iniettare in un piano, possibilmente europeo, di «Grandi opere») il mercato, anzi, «i mercati», ci faranno ritrovare la strada della crescita. E a esentare tutti, quindi, dal pensare che cosa occorra veramente per promuovere, stabilizzare e qualificare l'occupazione, salvare il tessuto industriale, le professionalità e le competenze ancora esistenti, restituire fertilità ai suoli e sostenibilità all'assetto idrogeologico; contribuire a salvare il pianeta Terra dagli imminenti sconvolgimenti climatici. La crisi finanziaria ha distolto le menti da questi problemi - soprattutto dall'ultimo, che è il più grande e urgente: non solo in Italia ma in tutto il mondo che fa della crescita il suo feticcio: tanto che a Durban, dove sta per aprirsi la Cop 17, ultima occasione per prendere impegni contro il riscaldamento della Terra, non si concluderà, per l'ennesima volta, niente".
da Guido Viale, "Il default è un disastro ma è il male minore", Il manifesto, 10 novembre 2011.
È il pensiero unico, la fiducia nei «mercati», la convinzione che «non c'è alternativa», a spingere tutti a pensare che, una volta rimesso in moto il motore (con il taglio della spesa, delle pensioni, dei salari, dell'occupazione, dei servizi pubblici, della ricerca, dell'istruzione e, magari, con qualche miliardo da iniettare in un piano, possibilmente europeo, di «Grandi opere») il mercato, anzi, «i mercati», ci faranno ritrovare la strada della crescita. E a esentare tutti, quindi, dal pensare che cosa occorra veramente per promuovere, stabilizzare e qualificare l'occupazione, salvare il tessuto industriale, le professionalità e le competenze ancora esistenti, restituire fertilità ai suoli e sostenibilità all'assetto idrogeologico; contribuire a salvare il pianeta Terra dagli imminenti sconvolgimenti climatici. La crisi finanziaria ha distolto le menti da questi problemi - soprattutto dall'ultimo, che è il più grande e urgente: non solo in Italia ma in tutto il mondo che fa della crescita il suo feticcio: tanto che a Durban, dove sta per aprirsi la Cop 17, ultima occasione per prendere impegni contro il riscaldamento della Terra, non si concluderà, per l'ennesima volta, niente".
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento