venerdì 23 settembre 2011

Friedrich von Archimboldi, Monolito (2004?)

Vi avviso subito. Non è che il corpus primordiale di Friedrich sia infinito. Anzi, stiamo cercando di presentarlo integralmente, anche per poi concentrare meglio l'attenzione sulle opere più recenti, che Archi elabora con il contagocce. Non stiamo cercando di smerciare opere fasulle o retrodatate, come purtroppo abbiamo visto fare spesso nel merdaio dell'arte contemporanea. Archimboldi non crede nell'arte, anzi pensa che non esista. Quindi, per cominciare, è impossibile che si ritenga un artista. Questo manufatto di legno nacque come cassonetto per avvolgibile d'emergenza, essendo crollato per infiltrazioni d'acqua quello vecchio, nel bagno. Il materiale è il legno, secondo solo al metallo nell'immaginario dell'Autore. 
Se andate a guardare da vicino, sul legno utilizzato c'è una scritta. Si tratta del nome del destinatario di un voluminoso scatolone di legno: l'ambasciata della Tanzania a Roma, che gentilmente ha poi gettato vicino al cassonetto il legno, dove l'autore l'ha trovato e prelevato con disccreta destrezza.
No. Non mi cominciate a fare la nenia del terzomondismo, perché non attacca. A parte che in Tanzania il governo è migliore di quello italiano (e non è difficile, ne convengo). Friedrich recupera tutto ciò che lo attira. Si è favoleggiato molto, tra gli addetti ai lavori (sostanzialmente il piccolo drappello dei "nuovi critici concretisti", formatosi a Oriolo Romano qualche tempo fa, gruppo di cui faccio parte, seppure con qualche distinguo), si è favoleggiato molto, dicevo, sul contenuto della scatola inviata dall'Africa all'ambasciata. Un elefante d'avorio? Un copricapo tribale? Un tavolo? Nulla? (ossia una scatolona di legno vuota, mandata in Italia per fare uno scherzo ai paesani forse troppo crapuloni). Non lo so. Certo è che vetture targate cd, in generale, a Roma fanno come cazzo gli pare, tanto le multe non le pagano mai. Chiedete ai pizzardoni. E il ciclista soffre. Anch'io vado in bici, sapete?, ma ne parleremo in un'altra sede. Anzi, approfitto per ringraziare il blog "rotazioni" che, tanto amabilmente, concede spazio alle mie quisquilie critiche.

Dicevamo: cassettone per avvolgibile, cioè quella scatola di legno (adesso in orrenda plastica o d'alluminio), che protegge l'avvolgibile, ma soprattutto chi sta dentro casa (dal freddo). A primavera, nella scatola tanzaniana si annidarono le rondini, che fecero sostanzialmente due cose: fare uova, quindi figli, e cacare. I segni di quel passaggio sono ancora ben evidenti nel retro del Monolito. Un inno alla vita.
Ho cercato di evitare finora il nucleo del problema, ma non posso procrastinare ulteriormente un'osservazione elementare: Friedrich ha visto dei film. In particolare quelli di Kubrick, è inutile sottacerlo o ridimensionare quest'influenza, sebbene ora egli non abbia accesso, volutamente, all'elettricità e si scaldi di notte col suo cane in ripari provvisori. Perché il monolito è quello di 2001: Odissea nello spazio, è innegabile. Un film che, passato il 2001, il 2002, il 2003 e, pervenuti al 2004, si è rivelato cattivo profeta. La Pan-Am, che nella pellicola gestiva il traffico cosmico, era fallita da un pezzo e, invece delle astronavi, gli umani riscoprivano semmai la bicicletta. La benzina, adesso è arrivata a 1.70 euro al litro, tiene ancora tutti al guinzaglio e la gente continua ad andare in auto e a mangiare merda pur di continuare a farlo. Non tentate di mettere dentro queste considerazioni lo slow food, che mi incazzo. Molto meglio il vassoio del film a gravità zero. Basta che non ci siano ogm, questo sì. 
Il monolito è chiaramente quello del film, ma di legno. Un cassettone per avvolgibile disposto sul lato più corto, con le cacate delle rondini ancora dentro, che si innalza verso il cielo o il soffitto, puntando su destinazioni cosmiche immeritate. Una Stonehenge di ciò che non è stato, l'utopia di ciò che vorremmo fosse.


Saverio Bragantini, docente di storia dell'arte sperimentale, contemporanea e futura

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