Hai voluto la bicicletta?" Ma per l’Inail, guai se pedali! (come disincentivare l'utilizzo delle bici in città)
di Tiziano Marelli
Più precisamente, a proposito di senso, a cogliermi - nel caso in questione - è stato quello dell’impotenza leggendo una circolare dell’Inail – il nostro Istituto Nazionale Assicurazione sul Lavoro - che, comunque la si vuole e riesca a decrittare, lascia basiti e carichi di interrogativi. Sul tema relativo alla “indennizzabilità di infortuni in itinere occorsi utilizzando la bicicletta e il servizio di bike-sharing” un protocollo del nostro ente, datato 7 novembre dello scorso anno a firma della direzione centrale prestazioni, recita infatti che “Considerata la sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile che annovera tra le sue forme l’uso della bicicletta, al fine di fornire risposta ai quesiti in questione e le necessarie istruzioni operative per l’esame delle singole fattispecie” viene specificato che “(…) con riferimento all’indennizzabilità di infortuni in itinere occorsi utilizzando la bicicletta, si ritiene che la valutazione sul carattere ‘necessitato’ dell’uso di tale mezzo di locomozione, per assenza o insufficienza dei mezzi pubblici di trasporto e per la non percorribilità a piedi del tragitto, considerata la distanza tra l’abitazione ed il luogo di lavoro, costituisca discrimine ai fini dell’indennizzabilità soltanto quando l’evento lesivo si verifichi nel percorrere una strada aperta al traffico di veicoli a motore e non invece quando tale evento si verifichi su pista ciclabile o zona interdetta al traffico”. Chiaro? Non del tutto direi, ma forse (forse!) ci viene in soccorso il seguito: “Nel primo caso, infatti, può ritenersi sussistente la ratio sostanziale dell’esclusione dell’indennizzabilità dell’evento lesivo conseguente alla libera scelta, da parte del lavoratore, di esporsi ad un rischio maggiore, rispetto a quello gravante sugli utenti dei mezzi pubblici di trasporto, nell’affrontare il traffico veicolare a bordo del mezzo di trasporto privato. La suddetta ratio, invece, non ricorre nel caso di tragitto su pista ciclabile, e cioè su percorso protetto ed interdetto al traffico dei veicoli a motore, essendo escluso quel rischio che risulta aggravato dalla scelta del mezzo di trasporto privato”.
Dopo lungo cogitare nel tentativo di risolvere il rompicapo (oltre che tentare di capire anche il senso esatto di una cascata di virgole messe a capocchia) e senza tralasciare di chiedere lumi a chi magari ne capisce più di me, quello che mi è sembrato di cogliere è anzitutto che, pur sottolineando l’Inail “la sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile che annovera tra le sue forme l’uso della bicicletta”, questa viene in fondo considerata “libera scelta, da parte del lavoratore, di esporsi ad un rischio maggiore”, che come disincentivo immediato a farne uso, di per sé non è niente male. Ancora, che un eventuale indennizzo per qualsiasi tipo di danno personale viene riconosciuto anzitutto se l’uso della bicicletta è obbligato dal fatto che non esiste altro modo per andare sul posto di lavoro con i mezzi pubblici o a piedi, e che comunque a pesare in maniera determinante è la scelta personale: se si copre il percorso a due ruote su strada “normale” l’Inail non pagherà eventuali infortuni; se invece ciò avviene su pista ciclabile, sì (e il fatto che il nostro Paese sia in fondo alla classifica continentale in termini di chilometri di piste ciclabili realizzate è assolutamente affare di chi non può percorrerle, proprio perché non ci sono).
Ma non basta, perché andando più avanti nel testo si scopre che “(…) Con riferimento all’indennizzabilità degli infortuni occorsi utilizzando il servizio di bike-sharing, si precisa che tale servizio, sebbene promosso e gestito dalle amministrazioni locali ai fini del decongestionamento del traffico e, quindi dell’inquinamento ambientale, non può, tuttavia, essere assimilato al mezzo pubblico di servizio”. Traduzione: pur volendo concorrere con una scelta chiaramente ecologica alla diminuzione del traffico, dell’inquinamento e al miglioramento del proprio stato di salute, chi va in bicicletta utilizzando questo tipo di servizio deve sapere che per il nostro intrepido ente in questione questo non è assolutamente considerato mezzo pubblico, anche se tutte le amministrazioni locali che lo hanno promosso lo ritengono precisamente tale, e tentano di incentivarne l’uso in ogni modo. In parole povere (e che forse ho capito male, ma qualcuno semmai mi corregga): in fondo è meglio usare – oltre ai mezzi pubblici, laddove è possibile – la macchina e la moto, anche se provocano (come è assolutamente provato) moltissimi danni in più ai relativi conducenti di quanti ne abbia mai provocati l’uso della bicicletta agli stessi su pedale.
In parole più povere ancora, ma che qualcuno ha già usato più volte in altro contesto meno nobile, ecco qua: “Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!”, frase alla quale, volendo, è anche possibile aggiungere come morale a questa (tutt’altro che) favola a lieto fine: ma se ti capita qualcosa molto probabilmente è colpa tua, che sei stato così sprovveduto da pensare più all’ambiente e alla tua salute che alle capacità fervide di fantasia proprie di qualche burocrate illuminato.
E alla fin fine mi sono convinto del tutto che la mia non è solo un’impressione superficiale: la stele di Rosetta, davanti ad un eloquio burocratico come quello appena affrontato si sarebbe arresa, del tutto impotente rispetto alla possibilità di fornire una chiave utile e fino in fondo comprensibile per una corretta traslitterazione degli intendimenti sopra esposti, e che se questo faticosamente succede a giovarsene non sono certo i ciclisti-lavoratori, no no! In fondo basta convincersi del fatto che il linguaggio universale non dev’essere propriamente patrimonio da pubblici amministratori, soprattutto se di lungo corso e sapiente cavillo.
Talvolta si ha l’impressione che nemmeno la risoluzione ormai datata dell’enigma insito nei simboli della stele di Rosetta – la sua scoperta, in Egitto, risale ormai al 1799, ad opera dell’esercito di Napoleone - sia sufficiente a cogliere appieno il senso del burocratese nazionale, in tutte le sue sfumature e sfaccettature.Più precisamente, a proposito di senso, a cogliermi - nel caso in questione - è stato quello dell’impotenza leggendo una circolare dell’Inail – il nostro Istituto Nazionale Assicurazione sul Lavoro - che, comunque la si vuole e riesca a decrittare, lascia basiti e carichi di interrogativi. Sul tema relativo alla “indennizzabilità di infortuni in itinere occorsi utilizzando la bicicletta e il servizio di bike-sharing” un protocollo del nostro ente, datato 7 novembre dello scorso anno a firma della direzione centrale prestazioni, recita infatti che “Considerata la sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile che annovera tra le sue forme l’uso della bicicletta, al fine di fornire risposta ai quesiti in questione e le necessarie istruzioni operative per l’esame delle singole fattispecie” viene specificato che “(…) con riferimento all’indennizzabilità di infortuni in itinere occorsi utilizzando la bicicletta, si ritiene che la valutazione sul carattere ‘necessitato’ dell’uso di tale mezzo di locomozione, per assenza o insufficienza dei mezzi pubblici di trasporto e per la non percorribilità a piedi del tragitto, considerata la distanza tra l’abitazione ed il luogo di lavoro, costituisca discrimine ai fini dell’indennizzabilità soltanto quando l’evento lesivo si verifichi nel percorrere una strada aperta al traffico di veicoli a motore e non invece quando tale evento si verifichi su pista ciclabile o zona interdetta al traffico”. Chiaro? Non del tutto direi, ma forse (forse!) ci viene in soccorso il seguito: “Nel primo caso, infatti, può ritenersi sussistente la ratio sostanziale dell’esclusione dell’indennizzabilità dell’evento lesivo conseguente alla libera scelta, da parte del lavoratore, di esporsi ad un rischio maggiore, rispetto a quello gravante sugli utenti dei mezzi pubblici di trasporto, nell’affrontare il traffico veicolare a bordo del mezzo di trasporto privato. La suddetta ratio, invece, non ricorre nel caso di tragitto su pista ciclabile, e cioè su percorso protetto ed interdetto al traffico dei veicoli a motore, essendo escluso quel rischio che risulta aggravato dalla scelta del mezzo di trasporto privato”.
Dopo lungo cogitare nel tentativo di risolvere il rompicapo (oltre che tentare di capire anche il senso esatto di una cascata di virgole messe a capocchia) e senza tralasciare di chiedere lumi a chi magari ne capisce più di me, quello che mi è sembrato di cogliere è anzitutto che, pur sottolineando l’Inail “la sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile che annovera tra le sue forme l’uso della bicicletta”, questa viene in fondo considerata “libera scelta, da parte del lavoratore, di esporsi ad un rischio maggiore”, che come disincentivo immediato a farne uso, di per sé non è niente male. Ancora, che un eventuale indennizzo per qualsiasi tipo di danno personale viene riconosciuto anzitutto se l’uso della bicicletta è obbligato dal fatto che non esiste altro modo per andare sul posto di lavoro con i mezzi pubblici o a piedi, e che comunque a pesare in maniera determinante è la scelta personale: se si copre il percorso a due ruote su strada “normale” l’Inail non pagherà eventuali infortuni; se invece ciò avviene su pista ciclabile, sì (e il fatto che il nostro Paese sia in fondo alla classifica continentale in termini di chilometri di piste ciclabili realizzate è assolutamente affare di chi non può percorrerle, proprio perché non ci sono).
Ma non basta, perché andando più avanti nel testo si scopre che “(…) Con riferimento all’indennizzabilità degli infortuni occorsi utilizzando il servizio di bike-sharing, si precisa che tale servizio, sebbene promosso e gestito dalle amministrazioni locali ai fini del decongestionamento del traffico e, quindi dell’inquinamento ambientale, non può, tuttavia, essere assimilato al mezzo pubblico di servizio”. Traduzione: pur volendo concorrere con una scelta chiaramente ecologica alla diminuzione del traffico, dell’inquinamento e al miglioramento del proprio stato di salute, chi va in bicicletta utilizzando questo tipo di servizio deve sapere che per il nostro intrepido ente in questione questo non è assolutamente considerato mezzo pubblico, anche se tutte le amministrazioni locali che lo hanno promosso lo ritengono precisamente tale, e tentano di incentivarne l’uso in ogni modo. In parole povere (e che forse ho capito male, ma qualcuno semmai mi corregga): in fondo è meglio usare – oltre ai mezzi pubblici, laddove è possibile – la macchina e la moto, anche se provocano (come è assolutamente provato) moltissimi danni in più ai relativi conducenti di quanti ne abbia mai provocati l’uso della bicicletta agli stessi su pedale.
In parole più povere ancora, ma che qualcuno ha già usato più volte in altro contesto meno nobile, ecco qua: “Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!”, frase alla quale, volendo, è anche possibile aggiungere come morale a questa (tutt’altro che) favola a lieto fine: ma se ti capita qualcosa molto probabilmente è colpa tua, che sei stato così sprovveduto da pensare più all’ambiente e alla tua salute che alle capacità fervide di fantasia proprie di qualche burocrate illuminato.
E alla fin fine mi sono convinto del tutto che la mia non è solo un’impressione superficiale: la stele di Rosetta, davanti ad un eloquio burocratico come quello appena affrontato si sarebbe arresa, del tutto impotente rispetto alla possibilità di fornire una chiave utile e fino in fondo comprensibile per una corretta traslitterazione degli intendimenti sopra esposti, e che se questo faticosamente succede a giovarsene non sono certo i ciclisti-lavoratori, no no! In fondo basta convincersi del fatto che il linguaggio universale non dev’essere propriamente patrimonio da pubblici amministratori, soprattutto se di lungo corso e sapiente cavillo.
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