Mi è capitato qualche volta di evidenziare l'astrattezza di alcune battaglie della Fiab. C'è un eccezione, però, riguardante la tutela dell'infortunio in bici nei percorsi casa-lavoro (ossia in itinere), introdotta con l'art. 12 del Decreto Legislativo n. 38 del 2000. La notizia è che la giunta regionale della Puglia, su proposta dell'Assessore ai Trasporti Mario Loizzo, ha approvato la delibera n. 466 del 24 marzo 2009 a sostegno della petizione promossa dall'associazione per chiedere che venga riconosciuto il diritto all'infortunio anche a chi si reca al lavoro in bici.
Cosa dice l'art. 12? Abbiate pazienza, lo riporto integralmente.
"Salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti. L'interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all'adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L'assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Restano, in questo caso, esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall'abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall'uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni; l'assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida.".
Nel decreto, non c'è nessuna menzione del tipo di mezzo utilizzato. La definizione "normale percorso" implica l'uso di mezzi di trasporto comuni: a piedi o con i mezzi pubblici. L'uso di mezzi privati deve essere giustificato dall'assenza di mezzi pubblici o dalla mancanza dei suddetti negli orari in cui il soggetto si reca al lavoro.
Va sottolineato che andare a piedi vuol dire utilizzare un mezzo di trasporto privato, o naturale, non so come vogliamo definirlo, comunque un mezzo di trasporto a cui la bicicletta assomiglia molto, certo più di un suv o di un deltaplano.
Faccio il mio esempio, solo perché lo conosco bene. Per andare al lavoro con i mezzi pubblici, l'Atac mi consiglia un itinerario (teorico) di 65 minuti, che comprende vari autobus e treni, e una sorta di giro panoramico della Capitale: per andare da Monte Mario al Labaro devo passare per Piazzale Flaminio! Ergo, forse avrei diritto a utilizzare l'auto, per il decreto n.38/2000. Non ne sono neanche sicuro. Forse la legge prescrive che, se voglio essere tutelato nei miei spostamenti, io mi debba sobbarcare ogni giorno un viaggio di 130 minuti, sempre teorici, che con l'aggiunta del traffico e delle perdute coincidenze renderebbero impossibile l'esistenza a chiunque. Quindi, senza esserne sicuro, potrei aspirare a rientrare nei diritti sanciti dal decreto anche usando l'auto. Non ne sono sicuro. Invece quasi sempre vado al lavoro in bici: impiego più o meno lo stesso tempo che impiego in auto quando non c'è il traffico. Ne traggo beneficio fisico e mentale.
Non è che con questo ostracismo nei confronti della bici stiamo toccando uno dei nervi scoperti delle attuali concezioni sulla mobilità, imposte dalle aziende automobilistiche e dalle società petrolifere, fin da quando gattonando giocavamo con le macchinine? Non sarebbe ora di ridefinire le nostre concezioni a favore degli utenti deboli della strada che oggi non riescono ad attraversare sulle strisce pedonali e le auto suonano impazzite e si tamponano quando uno si ferma per farle passare?
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