Di chi è la bici? Non è di nessuno, perché è di tutti
La bicicletta in città
In molte città italiane la bici è ancora oggi, tradizionalmente, il mezzo di trasporto prediletto per gli spostamenti medio-brevi; basti pensare a Firenze, Bologna, Mantova, Ferrara, Parma, Ravenna, Reggio Emilia, Bolzano, Brescia (la sensazione è di aver così esaurito le città italiane ciclisticamente virtuose). Nelle metropoli, invece, a scegliere la bici sono ancora in pochi. Eppure, gradualmente, anche a Milano, Roma, Torino, Palermo, sono molti, spossati dal traffico, dai parcheggi a pagamento e dall’aumento del prezzo dei carburanti, a decidere di attrezzarsi e usare la bici non solo per diletto, ma anche per gli spostamenti quotidiani. Altri desistono, giustificandosi in vari modi, affermando che è troppo pericoloso, che si suda, che c’è troppo smog, che non si sa come cambiarsi una volta giunti a destinazione, ecc.: la lista di motivazioni di chi adduce scuse per il fatto di non usare la bici, in particolare rivolgendosi ai ciclisti, dopo averli elogiati per la loro intraprendenza, è lunga quasi quanto quella degli aspiranti ciclisti urbani. Dal punto di vista tecnico, usare la bici in città è semplice, basta abituarsi a muoversi nel traffico in un altro modo, che non è né quello dell’auto né quello delle moto. Il problema è un altro e riguarda le politiche di supporto a questo tipo di decisione individuale. Il quadro legislativo, infatti, è quantomai vago e le numerose deleghe dello Stato alle Regioni, delle Regioni ai Comuni, e dei Comuni ai Municipi rischia di far disperdere una progettualità organica e centralizzata, che deriva in gran parte da sollecitazioni europee, in mille iniziative locali prive di collegamento. Basta vedere come è stata applicata la più che decennale legge 19 ottobre 1998, n. 366, dedicata alla “Norme di finanziamento della mobilità ciclistica”. Si parte con una delega alle Regioni che hanno il compito di distribuire le risorse fra gli enti locali. Basta scorrere la lista degli interventi previsti dalla legge per comprendere quanto poco si è fatto per applicarla: piste ciclabili e ciclopedonali; parcheggi attrezzati; segnaletica luminosa per il traffico ciclistico; infrastrutture per sviluppare l’intermodalità (per es. bici + treno); redazione di cartografia specializzata; conferenze e attività culturali; realizzazione di itinerari ciclabili turistici; realizzazione di intese con le aziende per integrare la bici al trasporto pubblico locale; e, infine, “ogni ulteriore intervento finalizzato allo sviluppo e alla sicurezza del traffico ciclistico”. La delega alle Regioni si è tramutata in una serie di leggi regionali. Quella del Lazio, per esempio, è la n. 13 del 1990; fra l’altro, prescrive che nella progettazione di nuove strade comunali, vicinali e provinciali siano previste piste ciclabili: lettera morta, se si guarda alle strade realizzate nel Lazio negli ultimi dieci anni.
Se, a livello nazionale, l’uso della bici in città va ancora a rilento è certamente colpa del mancato sfruttamento delle possibilità offerte dalle leggi, ma è a livello individuale, però, che si compie il passo decisivo. Il fatto di muoversi in bici è soprattutto un fatto di cultura, che si basa sull’esempio degli altri, sulla condivisione delle esperienze e su un oggettivo risparmio di tempo, denaro, vantaggi per la salute, ecc. I fattori esclusivamente economici sembrano avere la priorità solo su categorie particolarmente disagiate, come studenti, immigrati precari, disoccupati, ecc. Infatti, neanche le recenti impennate del prezzo del barile di petrolio hanno sortito l’effetto sperato: si fa a meno del cinema, del ristorante, ma non della benzina. Eppure, lentamente, qualcosa si muove. È stato calcolato che dal 2000 e il 2007 gli spostamenti a pedali sono quasi raddoppiati (dall’1,6 al 3%, dati Isfort). Sempre secondo i dati Isfort, nel 2007 le persone che abitualmente hanno fatto uso della bicicletta erano il 13.5% della popolazione tra i 14 e gli 80 anni, mentre nel 2004 erano il 3,7%. Una crescita confortante, particolarmente in regioni come l’Emilia-Romagna (31,3% della popolazione in bici) e il Nord-Est, tra le altre cose culla dell’industria ciclistica nazionale (28,5%). In altri Paesi europei, in cui è molto diffuso l’uso delle due ruote, al punto da costituire una seria alternativa all’auto e ai mezzi pubblici a motore, si vive in una perenne Critical Mass (cfr. avanti), un volume di traffico su mezzi a pedali che i percorsi ciclabili non riescono a contenere e che impone anche al traffico a motore le sue regole. Se gli italiani percorrono ogni anno 168 Km in bici, i tedeschi ne fanno 1330 e gli olandesi 1000. A Berlino o Amsterdam, ma anche a Barcellona – che ha conosciuto negli ultimi anni una rapida trasformazione ciclistica, grazie alle infrastrutture realizzate dall’amministrazione comunale –, le centinaia di ciclisti che circolano in città fanno pensare che l’uso della bici sia soprattutto una questione di abitudini, su cui le politiche locali devono fare pressione, con piste ciclabili, incentivi fiscali, percorsi consigliati, limitazione della velocità; allo stesso tempo, è necessario rendere più difficili e costosi gli spostamenti con autovetture private, per il semplice fatto che chi circola in automobile inquina, è in vari modi pericoloso e produce un grave danno sociale sulla salute e anche sull’economia della collettività. In una logica del genere, l’uso dei Suv e di altri mezzi inutilmente ingombranti andrebbe vietato.
Se non è necessario spronare qualcuno all’uso della bici, quando questa fa parte delle tradizioni familiari e di abitudini condivise nei luoghi di lavoro e nella scuola, la battaglia per la nuova mobilità si combatte nelle grandi metropoli, in cui l’individuo è socialmente più isolato e in cui il conflitto prevale sul dialogo, finanche nella circolazione stradale. Tuttavia, i grandi Comuni italiani, assediati dall’inquinamento e incapaci di trovare rimedi soddisfacenti senza scontentare gli abitudinari votanti e consumatori di benzina, automobili, assicurazioni, pezzi di ricambio (quindi la schiacciante maggioranza della popolazione), non sembrano applicarsi molto per trovare un rimedio, a parte il rischio di pesanti sanzioni a livello europeo.
La bici, citata nelle leggi e tradita dalle istituzioni, è tirata in ballo ogniqualvolta si intende dare una patina ambientalista a un’iniziativa, anche la più lontana dalla quieta semplicità di questo mezzo di trasporto. Un caso significativo è il recente rifacimento degli ambienti di lavoro della casa automobilistica Ferrari, a Maranello. Impianti fotovoltaici, ampie vetrate e 100 biciclette a disposizione dei dipendenti. Gli amministratori locali non si comportano in maniera troppo differente: cercano di darsi un’immagine al passo con i tempi con qualche percorso ciclabile, a volte evocato, altre volte lentamente costruito.
In mancanza di una politica snella e rapida che trasformi la viabilità urbana e favorisca l’uso della bici, sembra che le istituzioni siano più propense a organizzare iniziative estemporanee che abbiano una discreta ricaduta d’immagine, piuttosto che impegnarsi seriamente. In certi casi, sembra che le poche associazioni ciclistiche assecondino questa tendenza, forse anche per il fatto di non possedere una forza tale da incidere nelle decisioni di amministrazioni comunali e provinciali, per non parlare di quelle regionali e statali. A livello istituzionale è un fiorire di iniziative, come il Mobility Day – che si affianca all’idea dei mobility manager aziendali –, la Settimana europea della mobilità sostenibile, ecc. Dal 15 al 19 aprile 2008, nei giorni del Salone del Mobile, nell’ambito della mostra GreenEnergy Design, si è svolto “Milano CiclAbile”, per promuovere la mobilità a pedali in città e, presumiamo, anche diversi modelli di bici superaccessoriata. Si tratta di tutte iniziative effimere, che a qualcuno potranno risultare interessanti, ma che incidono poco sulla media dei comportamenti.
Le piste ciclabili sembrano essere il recipiente entro il quale, a livello istituzionale, si riversa qualsiasi discorso relativo alla bici in città. In questo modo, non si cercano soluzioni alternative e meno costose. D’altronde, la richiesta di un maggior numero di piste ciclabili è anche la cantilena ricorrente delle principali associazioni cicloturistiche: ma i soldi non ci sono, ribattono i comuni, oppure sono pochi. Sarebbe bello, si dice, recuperare quel lungo tratto di ferrovia a scartamento ridotto, ma non ci sono i soldi… Non che le piste ciclabili siano inutili, beninteso. Ma la loro realizzazione resta sulla carta o procede molto a rilento. Lentamente, prendono forma sistemi di viabilità alternativa alla pista ciclabile, che da sola non basta a sviluppare e promuovere la mobilità a pedali in città grandi e piccole. A livello di quartiere, si è cominciato a fare qualcosa con le cosiddette zone a 30 Km/h, di solito strade secondarie in cui l’accesso alle auto non è vietato, ma il transito di pedoni, passeggini e biciclette viene agevolato dalla limitazione della velocità e da una serie di misure che favoriscono il rispetto di tale limite, quali dossi artificiali, vasi con piante, ecc. Si tratta di un modo molto economico per difendere i diritti delle persone più vulnerabili e dei mezzi di trasporto più “deboli”, ma limitare seriamente la velocità dà molto fastidio ai votanti, nonché consumatori di benzina. Inoltre, le zone a 30 Km/h si oppongono alle logiche delle nuove metropoli, fatte di centri commerciali di periferia e grandi arterie stradali a scorrimento veloce, con i loro ipocriti limiti di velocità, strade su cui alle bici la percorrenza è esplicitamente vietata o quasi impossibile. Queste zone a velocità limitata servirebbero anche a bilanciare l’effetto desertificante degli spartitraffico e dei sensi unici delle nuove, “fluidificanti” e scriteriate progettazioni urbanistiche, in modo da ricreare un equilibrio locale, basato su piccoli quartieri, ridando forza al territorio e alle economie locali del commercio minuto.
Da diversi decenni si fa esattamente l’opposto. Le politiche urbanistiche prevedono la costruzione di arterie stradali anche all’interno della città. Si tratta di uno dei maggiori ostacoli alla viabilità ciclistica. Queste grandi strade tagliano a fette la città. A causa della loro presenza, infatti, anche nelle vie limitrofe la circolazione è inibita alle biciclette, che devono compiere percorsi tortuosissimi, a causa dell’intramontabile mito della “fluidificazione del traffico”, un mito molto produttivo soprattutto per i padroni dell’asfalto e del cemento. No, le strade larghe non riducono il traffico, ma lo aumentano ; e poi, comunque, andrebbero allargate tutte le strade, non solo alcune.
Per promuovere la bicicletta come mezzo di trasporto urbano, un importante aspetto è quello dell’intermodalità, in particolare delle formule treno, o metropolitana, più bici. Nel primo caso si è fatto qualcosa in passato, ma non si è riusciti a sviluppare questo tema, forse adducendo la scusa che sono troppo pochi coloro che usano questa combinazione; nel secondo caso, siamo semplicemente all’ultimo posto in Europa, perché in Italia non è possibile, a nessuna ora, entrare in metropolitana con la bici.
Invece di investire nell’offerta di opportunità, le istituzioni aspettano che fiumi di ciclisti bussino alla porta con le loro esigenze. Intanto anche gli scooter restano bloccati nel traffico.
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