Stamattina leggevo il nuovo libro di Marc Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri, Milano, 2009, appena uscito. L'antropologo francese, noto per il concetto di “non luogo”, ha sentito l'esigenza di dedicare un pamphlet di 65 pagine alla bici. Non ci sono idee particolarmente nuove, ma viene ribadita l'importanza di questo oggetto nelle trasformazioni reali e ipotetiche del vivere quotidiano. Ma il punto di partenza è un altro. L'importanza della bici nell'esistenza di ogni individuo, il suo ruolo determinante nell'infanzia di ciascuno: «La bicicletta fa parte della storia di ognuno di noi». Si parva licet, lo stesso concetto ho cercato di chiarire nel mio articolo Di chi è la bici? Non è di nessuno perché è di tutti, un testo che ho postato a puntate su questo blog e che uscirà nel numero di giugno della rivista Lo Straniero (mi dicono). La bici regna in molte infanzie, ne costituisce un aspetto simbolico, rituale importantissimo, quasi iniziatico, basti pensare a quando abbiamo imparato ad andare senza rotelle. Non per dire che ho doti profetiche o che ho copiato, ma per sottolineare la concretezza di questo aspetto. Augé indugia sul rapporto tra uso individuale del velocipede e l'epopea dei Tour e dei Giri. La conquista della libertà, incarnata dall'imparare ad andare in bici, è un modo per rapportarsi con il mondo. Il sottoscritto notava che questo aspetto viene da tempo strumentalizzato dal mondo pubblicitario per proporre i prodotti più diversi, molto spesso automobili.
Dopo aver parlato del Velib' parigino, il bike sharing, e dopo aver notato che nella capitale francesce (e in molte altre città europee) «la rivoluzione dei pedali non è ancora avvenuta», Augé passa a trattare gli esempi di città virtuose nell'uso della bicicletta. Parla di La Rochelle in Francia e di alcune città italiane (Modena, Bologna e Parma – viene omessa invece Ferrara).
«La sfida risiede proprio nella difficoltà di conciliare le esigenze della megalopoli planetaria (il decentramento e l'estroversione di un insieme aperto al mondo, che importa ed esporta quotidianamente persone, prodotti, immagini e messaggi) e quelle della città concepita come luogo di vita, un ambiente intimo, forte dei suoi punti di riferimento e dei suoi ritmi quotidiani».
Direi che questi due aspetti convivono, e sono in lotta, in tutte le città moderne, anche le più piccole. Una realtà fatta di grandi arterie stradali, centri commerciali, luoghi pubblici e un'altra in cui si cerca di instaurare un ritmo più lento: abitazioni, parchi, scuole, mercati, luoghi di incontro. L'impulso (politico) dato all'uso urbano della bici, afferma Augé, potrebbe trasformare il volto delle città, ridefinirne gli usi e le funzioni. Un concetto chiave, segnalato da molti e disatteso dalla stragrande maggioranza degli amministratori pubblici.
Grande gioia mi procura la celebrazione del ciclista urbano parigino fatta da Augé (pp. 47-52), in particolare sulle personalizzazioni del mezzo, del vestiario e sul valore simbolico, oltre che concreto, dello stare in bici, dell'essere in qualche modo “personaggio”: non siamo una massa di folli, siamo oggetto di studi antropologici (e non zoologici) da parte di un grande accademico francese!
«Le tentazioni alla passività, che molti individui subiscono nella relazione con i vari mezzi di comunicazione, svaniscono non appena si mettono in sella». Pedalare aiuta a pensare meglio, a esercitare la critica. Ce la fai fatta ad andare a scuola o al lavoro in bici, quando persone passive, normali, refrattarie avevano detto che tutto ciò non era possibile.
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