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© 2007 Von Rotz Trust
Oggi me ne scendevo dall’Aeropago di Monte Mario per
Ciclista. “Perdona le mie escandescenze. Sai, devi comprendere che in bici possono saltare i nervi. Tu ti ammacchi, ma io m’ammazzo”.
Automobilista: “Non capivo che faceva quello davanti, così sono partito, ma ho messo la freccia”.
Ciclista: “Vero, ma non sono invisibile, mi hai visto arrivare, per me era una situazione pericolosa”.
Automobilista: “Ti chiedo scusa”.
Rinfrancato da un confronto civile, che però non intacca la boiata (classico caso di prevaricazione gratuita nei confronti del ciclista urbano: della serie io vado, lui s'arrangi), e rinfrancato solo dalla speranza che il dialogo sia servito, imbocco
Qualche controcorso torinese del '68 l'avrei seguito volentieri, magari non per intero. Sono tante le frasi profetiche scritte quarant’anni fa sul numero-manifesto dei Quindici, che vale la pena di rileggere: «I professori impongono un programma e questo viene spesso preparato su modesti riassunti tirando a indovinare. Si è giunti, in alcune Facoltà, all’assurdo: 600 studenti interrogati in tre giorni da un solo professore (Magistero, ottobre ’67) […] Il sistema di cooptazione dei professori, i quali vengono scelti da altri professori sulla base di criteri insindacabili: nepotismo, identità di vedute politiche, correnti filosofiche o culturali, sottogoverno, posizione nel mondo dell’industria […] Ma lo strumento di controllo maggiore nelle mani dei professori, quello che dà valore a tutti gli altri e la vera base politica del loro potere accademico è la collaborazione degli studenti. Senza collaborazione degli studenti, un professore, se non è anche un dirigente d’azienda o un ministro (cosa non poi tanto rara) non è più nulla». Vanno notate innanzitutto due cose. La prima è che il sistema di cooptazione dei professori è oggi molto peggiorato. Lasciamo da parte la sceneggiata dei concorsi; nell’individuazione dei candidati più opportuni, sono sparite completamente le motivazioni politiche e filosofiche, ed è rimasta in piedi soltanto la logica del sottogoverno, peraltro non suffragata da una comunanza intellettuale, ma soltanto da numerose ore di lavoro illegale, offerto a titolo gratuito e la cui autorialità non è riconosciuta, violando così al contempo le leggi del lavoro e quelle sul diritto d’autore. Detto in parole più chiare: sempre più spesso, i concorsi universitari vengono vinti da persone che non hanno scritto quasi nulla ma, stando alla commissione, hanno effettuato una prova di concorso di elevatissimo livello. I verbali dei concorsi oggi si trovano sul web, ma come mai molti di coloro che hanno vinto un concorso non mettono il loro curriculum online? Si vergognano?
Esattamente quarant’anni fa, con l’avvio dell’anno accademico 1967-68, cominciava la stagione delle occupazioni da parte del movimento studentesco. Il 17 novembre si iniziava dalla Cattolica a Milano e il 24 era la volta di Palazzo Campana a Torino; nelle immagini riportiamo alcuni particolari della copertina del mensile Quindici (n. 7 , 15 gennaio 1968) che annunciava l’evento torinese, offrendo controcorsi e gruppi di studio. Diretta da Alfredo Giuliani, la rivista recava articoli programmatici su quella che sarebbe dovuta essere la presa di possesso dell’università. Un articolo firmato da Furio Colombo introduce un lungo programma, che si prefigge obiettivi precisi. La contestazione al potere accademico viene condotta con un’accurata indagine del quadro legislativo, un’indagine sui progetti dell’università torinese. Persone non eccessivamente politicizzate perseguivano la ricerca del cambiamento, ben coscienti delle interconnessioni tra politica, economia e accademica.
"Contro l’autoritarismo accademico, potere agli studenti": è questo lo slogan che attornia lo strepitoso professore universitario zombie nel manifesto dell’occupazione di Palazzo Campana all’Università di Torino (novembre 1967). All’epoca, i laureati in lettere andavano a lavorare nelle case editrici, se non c’era nulla di meglio si cominciava dalla scuola e si conducevano attività collaterali più gratificanti. No, non era un’età dell’oro, ma le cose erano forse più chiare. All’epoca, i laureati in lettere scrivevano bene in italiano. A quarant’anni di distanza da quelle prime occupazioni, urge una riflessione accurata sulle stagnazioni e i cambiamenti dell’università. Ogni volta che si affronta il tema ricerca-università ci si aggrappa a un paio di luoghi comuni. I più gettonati sono: la scarsa percentuale di Pil devoluta alla ricerca e i cervelli in fuga. Ma dimentica tutto il resto.